di Cristina Rufini | 11 gen 2022
“A dritta. Altrimenti andiamo sugli scogli”. Sono le 21 e 43 del 13 gennaio 2012 quando il comandante della Costa Concordia, Francesco Schettino, 60 anni, sul ponte di comando, si rivolge al timoniere Jacob Rusli Bin, scherzando, per correggere un ordine che non era stato compreso, mentre la nave sta andando alla velocità di 16 nodi verso la costa dell’Isola del Giglio, dopo che lo stesso comandante aveva modificato la rotta pianificata alla partenza da Civitavecchia, per fare l’inchino all’isola.
E’ una battuta, in quel momento. Ma due minuti dopo, esattamente alle 21:45’:07”, il transatlantico da crociera con 4229 persone a bordo tra passeggeri e membri dell’equipaggio, impatta con un piccolo scoglio del gruppo Le Scole. La collisione taglia letteralmente il lato sinistro della nave, provocando uno squarcio di oltre cinquanta metri e causando quasi subito un blackout, per poi mettere fuori uso in pochi minuti i compartimenti della nave dove si trovavano i motori. La collisione nel buio fa piombare quel gigante e tutte le sue persone a bordo nelle braccia della signorìa della morte.
Sì, perché di lì a poco accade ciò che neanche nei migliori romanzi di fantascienza si sarebbe potuto immaginare: una piccola isola, del Tirreno, bellissima, con novecento anime appena, invasa nel buio della notte da quattromila persone, molte ferite, tutte spaventate, alcune in cerca dei propri cari che non vedranno più. “Un’apocalisse”, è l’immagine con cui in questi dieci anni Sergio Ortelli, allora come oggi sindaco dell’Isola del Giglio, utilizza per rappresentare quella notte.
“Fui avvertito di una nave in avaria intorno alle 22.30 dal comandante della polizia municipale – racconta Ortelli -. Mi diressi verso il porto e a un certo punto iniziai a vedere la nave, ancora illuminata, inclinata a malapena, non potevo immaginare. Poi l’arrivo al molo che piano piano si riempiva di naufraghi, con gli occhi sbarrati e spaventati. Che chiedevano aiuto. Il recupero delle prime tre vittime, i soccorsi: da lì la percezione reale della tragedia immane, dell’apocalisse appunto. Io però ho continuato a lavorare, a organizzare per accoglierli: abbiamo aperto le chiese, le scuole e i gigliesi, gli schivi gigliesi, gente di mare, hanno messo a disposizione le proprie case e hanno accolto i naufraghi, rifocillati, mentre io continuavo a fare, a organizzare. Per almeno tre giorni senza fermarmi un attimo a pensare che cosa era accaduto, al perché era capitata una simile tragedia e proprio qui al Giglio”.
Mentre sull’isola la macchina dei soccorsi si mette in moto celermente ed efficaciemente, in mare la Concordia sta per adagiarsi sempre più verso gli scogli di punta Gabbianara dove, qualcuno dall’Alto, fortunatamente la guida facendo spirare vento di grecale che la spinge verso la costa. Sarebbe bastato fosse affondata qualche decina di metri più distante dalla costa per raccontare un’altra storia. Altri numeri di vittime. Invece lei, con il suo carico di passeggeri terrorizzati in cerca di scampo, si aggrappa a quel fondale scoglioso. E quando accade, purtroppo, a bordo ci sono ancora passeggeri e membri dell’equipaggio che non sono riusciti a mettersi in salvo a causa di un’emergenza ammessa troppo tardi: alcuni schiacciati tra la nave e la roccia dopo aver cercato scampo in mare, non avendo trovato posto sulle scialuppe strapiene di naufraghi, altri annegati lungo i corridoi dei ponti diventati pozzi infernali per l’acqua imbarcata.
Trentadue le vittime del naufragio, la più piccola Dayana Arlotti, poco più di 5 anni, morta abbracciata al padre Williams. E nel frattempo il comandante, fino a quando rimane sul ponte di comando, perso completamente il controllo della situazione, sta cercando di minimizzare quanto accaduto con i vertici di Costa e con le Capitanerie di Porto. Nelle conversazioni con Roberto Ferrarini, allora responsabile a terra della flotta di Costa, il comandante racconta prima di un black-out, poi solo dopo le 22 dell’avaria di alcuni motori dovuti a un impatto con un basso fondale, perché si era avvicinato alla costa per compiacere un maître gigliese che lo aveva ‘implorato’ di fare il saluto all’isola. E chiede rimorchiatori, il comandante, ma nessuna comunicazione di una falla, cui sarebbe dovuto seguire l’annuncio prima dell’emergenza generale e l’abbandono nave poi. Comunicazioni che secondo quanto accertato dalla verità giudiziaria, avvengono con colpevole ritardo, tanto da creare il caos a bordo e la confusione nell’abbandono della nave.
Poco prima della mezzanotte, dopo essere passato dalla sua cabina per recuperare un giubbotto e alcuni documenti, Schettino insieme ad altri sale su una lancia e raggiunge gli scogli della Gabbianara, da dove prosegue le comunicazioni, non chiare a dir poco, con gli ufficiali della Capitaneria di porto di Livorno che stanno cercando di capire quante persone siano ancora a bordo della balena d’acciaio ferita a morte.
A mezzanotte e trenta quasi, Schettino parla di nuovo con la Capitaneria da dove gli viene chiesto il numero esatto delle persone ancora a bordo… Lui cerca di rassicurare ma, messo alle strette da chi sa già che sulla Concordia che sta affondando ci sono ancora centinaia di anime in cerca di scampo, racconta che effettivamente anche lui da una lancia sta cercando di recuperare persone finite in mare. E’ già sugli scogli, invece, in salvo a guardare la nave che stava affondando. E ai ripetuti inviti del capitano Gregorio De Falco di recarsi vicino alla nave per controllare quante persone ancora ci fossero, lui replica che non può e che è stato costretto a scendere dalla nave perché catapultato su una scialuppa.
Sulla scogliera Schettino viene raggiunto anche dal comandante della Municipale del Giglio Roberto Galli, che si offre di accompagnarlo al porto da cui avrebbe potuto imbarcarsi per raggiungere la Concordia e coordinare i soccorsi. Schettino rifiuta, preferendo rimanere lì a “controllare l’evoluzione della situazione”. Nel frattempo a bordo del relitto che sta affondando sono saliti il vicesindaco Mario Pellegrini che insieme all’ufficiale cartografo Simone Canessa salverà centinaia di persone.
“Mi sono sempre chiesto in questi anni – confida oggi il sindaco Ortelli – se il mio sì alla richiesta di Mario di andare a vedere a bordo non fosse stato affrettato. Fu una decisione repentina, rischiosa certo, ma la situazione stava degenerando e nessuno dava informazioni precise, e io dovevo sapere che cosa era realmente accaduto”.
All’1.46 la più famosa delle telefonate di quella notte, drammaticamente famosa, ancora tra Schettino e il comandante della Capitaneria livornese De Falco che, ormai spazientito, gli intima di portarsi sul lato sinistro, dove ancora ci sono persone – le famose formichine di alcuni filmati che scendono lungo la parete rimasta emersa della Concordia – che cercano scampo e di risalire lui a bordo lungo la biscaggina… In questa conversazione il famoso “Salga a bordo, cazzo”. Neanche questo serve a convincere uno Schettino completamente ‘andato’. Una volta raggiunto il molo del Giglio a bordo di un gommone, il comandante non risale più sulla sua nave abbandonata poco prima di mezzanotte. Lo fa al suo posto il safety Martino Pellegrini, che riesce a scalare quella stessa biscaggina che era stata indicata a Schettino e che prima era servita al comandante provinciale dei vigili del fuoco di Grosseto, Ennio Aquilino, per arrampicarsi sulla Concordia e prendere il comando delle operazioni di soccorso che si concludono poco prima delle 6 del mattino di sabato 14 gennaio, con l’ultimo ufficiale a scendere, il cartografo Simone Canessa. Lo stesso che aveva modificato la rotta, su indicazione di Schettino prima di partire da Civitavecchia. Variazione che Schettino ha sempre raccontato di aver fatto per accontentare il maitre Antonello Tievoli per un saluto alla sua isola. Ma, come detto, se fosse stata mantenuta la rotta pur modificata e già vicina alla costa disegnata da Canessa, oggi racconteremmo un altro epilogo. O forse non racconteremmo nulla, se non un passaggio un po’ più vicino al Giglio di una nave da crociera.
Schettino ha voluto osare… Ha spinto al massimo l’acceleratore per avvicinarsi il più possibile. Sotto gli occhi, chissà se divertiti, della sua compagnia femminile di quella sera, la moldava Domnica Cemortan che aveva cenato con lui poco prima al ristorante del ponte 11 per poi accompagnarlo a salutare il Giglio. Lei rientrerà, come migliaia e migliaia di naufraghi a Porto Santo Stefano, la mattina del sabato a bordo dei traghetti che per ore quel giorno fanno la spola per trasportare passeggeri ed equipaggio dal Giglio alla terraferma. Schettino viene recuperato sull’isola, trasportato a Porto Santo Stefano per essere interrogato prima e poi posto in stato di fermo quello stesso sabato. Rimarrà in carcere a Grosseto fino al 17 gennaio.
di Francesco Marinari | 11 gen 2022
Una telefonata che ha cambiato il destino di molte persone. Una delle registrazioni telefoniche più mediatiche della storia italiana. Il colloquio tra l’allora capo della sezione operativa della Capitaneria di porto di Livorno, Gregorio Maria De Falco e Francesco Schettino, comandante della Costa Concordia che stava inclinandosi finendo poi, su un fianco, sugli scogli di fronte al porto dell’Isola del Giglio. Sono le 1.46 della notte tra il 12 e il 13 gennaio 2012. Nella miriade di comunicazioni di quelle ore, con le forze di Protezione Civile impegnate in parte a soccorrere i passeggeri e in parte sulla via per il Giglio per le imponenti operazioni, c’è appunto la telefonata tra Schettino e De Falco, che stava coordinando le operazioni di soccorso. Il primo viene incalzato dal secondo. De Falco capisce che la situazione è molto più grave di quella che Schettino spiega. Il tono di De Falco è fermo: “Ascolti Schettino – è l’inizio della telefonata – Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C’è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro?”
De Falco sa che Schettino è sceso dalla nave, cosa che un comandante non dovrebbe fare. Schettino parla del buio e della nave inclinata, condizioni che gli impediscono di tornare a bordo. «Che sta facendo comandante?», chiede De Falco. «Sto qua per coordinare i soccorsi…», dice Schettino. «Lei vada a bordo, è un ordine. Lei non deve fare altre valutazioni. Lei ha dichiarato l’abbandono nave, adesso comando io. Lei vada a bordo! E’ chiaro? Non mi sente? Vada, mi chiami direttamente da bordo. Ci sta il mio aerosoccorritore lì».
I toni sono drammatici. Trentadue persone stanno morendo e De Falco continua a incalzare il comandante della Costa Concordia: “Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!”.
“Volevo salvare le persone a bordo, sapevano che c’erano molte persone in pericolo”, dirà poi De Falco negli anni successivi. Due anni dopo quella telefonata De Falco fu rimosso dai compiti operativi e spostato a compiti più amministrativi, sempre a Livorno. Fece ricorso al Tar perché giudicò persecutorio quell’atto da parte della Marina, ricorso che fu definito inammissibile. Ha poi lavorato a Nisida, in Campania, al comando logistico della Marina Militare.
Ma c’è un’altra telefonata di quella notte che salì alle cronache e che ancora oggi viene molto ascoltata su youtube. E’ quella, che precede la chiamata con De Falco, tra Schettino e il comandante delle Capitanerie Leopoldo Manna, che parla da Roma. Il tono è più pacato, il comandante Manna ascolta il racconto di Schettino che riferisce cosa è accaduto. Schettino non parla della collisione con gli scogli del Giglio ma di un generale black out che poi ha portato la nave a imbarcare acqua. Solo nel corso della telefonata il comandante Manna riesce a far ammettere a Schettino che c’è stata una collisione.