Tentacoli:

la mafia in Toscana

Gli affari criminali, il business dei rifiuti, l’assalto al territorio

“Viviamo con la paura di morire avvelenati”

Due residenti nella zona contaminata dal keu: “Ormai usiamo solo l’acqua minerale comprata al supermercato”

di Alessandro Pistolesi

Keu: tre lettere, un incubo. È così che la strada infinita – ci sono voluti 12,5 milioni di euro e anni di attese per completare l’infrastruttura –, è diventata la strada dei veleni. Sotto l’asfalto della strada regionale 429, nel tratto che collega Empoli a Castelfiorentino, sarebbero state seppellite ottomila tonnellate di fanghi tossici provenienti dalle concerie di Santa Croce. Keu, appunto. Un materiale che se non trattato nella maniera corretta può diventare un serio pericolo per la salute e l’ambiente.


Secondo l’Antimafia di Firenze queste ceneri inquinanti sono finite in cantieri e terreni di mezza Toscana, nell’ambito di un giro illecito di rifiuti che coinvolgerebbe anche la ‘ndrangheta. Dai risultati dei prelievi effettuati dalla Procura emerge che in alcuni casi i valori di cromo sono di 50 volte superiori ai limiti di legge. Numeri altissimi, che fanno venire i brividi. Sì, perché ci sono famiglie e cittadini che questi veleni li hanno subiti. E continuano a subirli. Ogni giorno convivono con la paura. Non usano più l’acqua del rubinetto che proviene dal pozzo. Si lavano i denti con la minerale comprata al supermercato.


Come Dario Mandriani, ingegnere, una moglie e due figli piccoli. Ha acquistato casa solo da pochi anni. Mai si sarebbe immaginato di trovarsi a vivere a 70 metri dalla strada dei veleni.

«La nostra vita è cambiata – racconta Dario –, fin da subito ci hanno attanagliato grosse paure. La paura di cucinare, di bere e lavare i nostri figli con l’acqua tossica è insostenibile». I primi controlli di Arpat sui pozzi privati hanno dato esito negativo. «All’inizio le analisi sono state condotte in maniera abbastanza diffusa – riprende Dario –. Un secondo controllo è stato svolto in estate, un terzo a dicembre. Ma di queste ultime analisi aspettiamo ancora i risultati. Vengono monitorati a campione solo alcuni pozzi, confidando nel fatto che la falda sia sempre la stessa».

 

Due le richieste principali: la bonifica urgente e l’allacciamento all’acquedotto. «Abbiamo fiducia nelle istituzioni locali e regionali che si sono impegnate in tutti i modi e si sono spese con parole positive e ottime intenzioni. Ma ora vogliamo che la nostra fiducia sia ripagata e chiediamo di stringere sui tempi, perché questa paura non è più sostenibile».

 

Simone Alderighi ha una piccola società agricola lungo la 429, vicino al tratto incriminato. Per settimane ha avuto paura di vendere i suoi ortaggi e molti clienti all’inizio si sono rifiutati di comprare quei prodotti. «Siamo disarmati e arrabbiati – racconta –. All’inizio ci siamo sentiti abbandonati, il silenzio della politica è stato assordante, poi sono arrivate le rassicurazioni. Speriamo davvero che tutto possa tornare alla normalità, ma per farlo la gestione dei rifiuti pericolosi deve essere gestita in piena trasparenza. Per vederci chiaro mi sono avvalso anche di uno studio esterno: ci hanno detto che prima di una possibile contaminazione della falda potrebbero volerci anni. Ma gli anni passano in fretta e i produttori non possono più vivere con questa paura».

Santa Croce Sull'Arno

“Le cosche migrano dove possono fare soldi”

Renato Scalia, l’uomo che fece parte della scorta di Caponnetto: “La politica ha sottovalutato il fenomeno. La lotta al crimine dev’essere continua”

di Giovanni Spano

Renato Scalia, fa parte dell’ufficio di presidenza della Fondazione Caponnetto ed è consulente per questa legislatura della Commissione parlamentare antimafia. Ex poliziotto, già nella scorta di Caponnetto, ha poi lavorato alla Digos e alla Dia. Ora questa esperienza sociologica.

 

«Mi sono avvicinato alla Fondazione Caponnetto perché ne sentivo parlare male. Critiche velenose. Andai a leggere i report e corrispondevano al vero. All’epoca ero ancora in polizia, nella segreteria Silp-Cgil».

Renato Scalia
Renato Scalia

Lei parlò di mafie in Toscana in tempi remoti, già più che sospetti, però non fu creduto…
«Nel 2014, ad Arezzo, sono con l’allora presidente della Commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi. Il fatto crea scalpore. Vengo convocato dai carabinieri come persona informata dei fatti. Sembrava che raccontassi chissà cosa… Ma i report non erano smentibili, erano basati sull’analisi di varie operazioni di polizia. Noi scriviamo dopo uno studio attento dei fatti. Allora io porto gli atti al convegno e succede il pandemonio. Parlare di queste problematiche crea problemi. Anche al nostro interno. Sul mio posto di lavoro. “Dove sta la mafia?” mi apostrofò un ex questore di Firenze, che pure è stato un grande poliziotto. Eppure erano cose acquisite dalla Dia. Insomma una settimana dopo quel convegno di Arezzo mi chiamano i Carabinieri, per decisione dell’allora procuratore di Arezzo. Mi prendono a verbale loro. Spiego che non parlo di cose inventate da me, ma di riscontri reperiti su “fonti aperte”. Cito ad esempio il duplice omicidio di due fratelli calabresi nell’Aretino. Proprio nella provincia in cui si nega la presenza di “tracce” mafiose».

 

Prima c’erano state altre avvisaglie di idiosincrasia verso queste denunce?
«2013, presento il primo rapporto a Palazzo Vecchio, c’è anche il presidente del Senato dell’epoca, anche lui sostiene che non si raccontavano balle. Però i detrattori non mancano. Ricordo gli allora presidente di ANCI Toscana e sindaco di Prato critici su quanto denuncio. E cioè che la Camorra sversa in Toscana. Una realtà, non chiacchiere. Con mediazioni di personaggi eccellenti, per così dire, protagonisti di anni tragici della Storia italiana e sovente al centro di inchieste giudiziarie. Per farla breve: ci attaccano e viene presentata una interrogazione parlamentare contro la procura nazionale antimafia».

 

Sottovalutazioni?
«Ce ne sono state sempre. Prendiamo un esempio recente, calzante, grave la ‘ndrina calabrese di Cutro che fa capo a Nicolino Grande Aracri. Dal nostro centro operativo Dia andiamo a Reggio Emilia. Certi segnali inequivocabili, devono essere rappresentati. Ma forse restano cosa morta. Ecco: quella cosca diventa forte, anzi lo era già, anche al Nord, proprio per sottovalutazione del fenomeno. Della sua pericolosità. Nel 2009 il prefetto di Reggio Emilia emette diversi provvedimenti interdittivi, la sua azione è incisiva. Scoppia lo scandalo con relativo processo Aemilia».

 

C’è uno spostamento in Toscana?
«Perché ora ci sono segnali tangibili di uno spostamento in Toscana? Perché le mafie seguono il corso degli eventi, in puro stile imprenditoriale migrano laddove possono sviluppare attività. Si muovono con personaggi di spessore. Sono indicativi in Toscana i casi di Gianluca Sarcone, una condanna a 14 anni in Appello. Penso ad Alfonso Diletto arrestato a Massa. In quella provincia, ne ho già parlato, c’è una “locale” di riferimento. La “locale” è la struttura che raggruppa più ‘ndrine. E vicino, a La Spezia, ci sono i Romeo-Siviglia: una presenza che è frutto di un accordo».

 

Come si previene?
«Bisogna fare monitoraggio continuo, analisi, non possiamo aspettare che il tumore diventi dirompente. La cosca Grande Aracri è diventata così forte per disattenzione. Come i Casamassima, nel Lazio. Per molti non erano nessuno, solo i galoppini della banda della Magliana. La politica si è piegata e la magistratura li ha a lungo sottovalutati. Ora che i Casamassima sono sotto attacco si stanno spostando al nord per fare “acquisizioni”».

 

Ci crede o è disincantato?
«Io sono romano, trapiantato qui dal 1980. Sono innamorato della Toscana. Ma la classe politica non si interessa della cosa. E questa disattenzione porta anche alla assuefazione da parte dei cittadini. Invece bisogna lottare».

La mafia non agisce da sola: la politica deve rispondere

La rabbia dei comitati No Keu: “Se intere aree toscane sono state inquinate significa che qualcosa non ha funzionato. Occorre una profonda revisione del sistema degli appalti pubblici”

di Alessandro Pistolesi

Un territorio ferito che chiede risposte. Da quando è scoppiato lo scandalo keu, i residenti che abitano lungo la strada dei veleni si sono riuniti in assemblea permanente formando un organo plurale con all’interno realtà che da sempre si battono contro le mafie, come l’Arci e l’Anpi.

 

«Sono anni che magistrati, associazioni del settore ed esperti denunciano infiltrazioni mafiose in Toscana – osservano i No keu –. Politici e amministratori regionali hanno sempre confermato la pericolosità del fenomeno e promesso il massimo dell’impegno a contrastarlo. Alla luce del fatto che intere aree toscane sono state inquinate con i peggiori veleni negli ultimi quattro anni, è evidente che – volendo pensare bene – qualcosa non ha funzionato o è stato sbagliato».

Fonte: Scuola Normale Superiore/Frush 2021

A scuotere il territorio è stata soprattutto la presunta complicità di alcuni politici con il sistema illegale di smaltimento rifiuti. «È necessario approfondire i legami che le organizzazioni mafiose hanno con imprenditori e politica – dice Valentina Papale dell’Arci comitato territoriale Empolese Valdelsa Aps –. Crediamo che una profonda revisione del sistema degli appalti pubblici sia ora inevitabile. Cogliere le trasformazioni della società mafiosa e la sua capacità di contaminare qualsiasi settore della nostra quotidianità è indispensabile per sconfiggerla definitivamente».

 

E sullo scandalo keu ci sono ancora troppi punti oscuri. «Da un lato restano da appurare tutte le responsabilità giuridiche e individuali, compito che spetta senz’altro alla magistratura – continuano i No keu –. Dall’altro ci sono le responsabilità politiche, su cui i partiti interessati tacciono. C’è la volontà di far passare l’accaduto come un errore all’interno di un sistema (quello della commistione fra pubblico e privato) che funziona. La nostra posizione è opposta: questo sistema rende le infiltrazioni mafiose e la speculazione ai danni dei cittadini dei fattori endemici. Inoltre ci sono ancora molte perplessità sul piano di caratterizzazione e messa in sicurezza dell’area, che tarda ad arrivare e su cui i residenti ricevono informazioni frammentate e tardive».

 

Dopo varie iniziative, manifestazioni, confronti con le istituzioni, ricerche e denunce, l’assemblea permanente non ha intenzione di mollare: «La nostra azione si è concentrata anche sulla creazione di reti con altre realtà toscane di lotta sul fronte ambientale e non solo. Stiamo costruendo un coordinamento regionale di tutte le vertenze presenti in Toscana, che sviluppi proposte alternative all’attuale sistema di gestione».

La mafia è il male, alla Toscana servono più anticorpi

Salvatore Calleri della Fondazione Caponnetto: “Sbagliato minimizzare, bisogna ritrovare la forza della denuncia”

di Giovanni Spano

«L’autorità giudiziaria è l’antimafia del giorno dopo. Ma occorre che anche qui in Toscana si sviluppi l’antimafia del giorno prima. A livello politico sociale intendo. Mi rivolgo a tutte le Istituzioni, Giani in primis».

 

Salvatore Calleri, catanese, da molti anni a Firenze, è il presidente della Fondazione Caponnetto, intitolata alla memoria del grande magistrato fiorentino che volò a Palermo da procuratore e con Falcone e Borsellino condusse in porto il maxiprocesso. Pagina storica della lotta alla mafia. La Fondazione è un osservatorio sulla criminalità organizzata. Progressivamente ha assunto importanza e considerazione. Lancia “red alert” sulle infiltrazioni mafiose. Organizza convegni. Pubblica report senza sconti.

 

«La fondammo io e mia moglie nel 2003, con la vedova Caponnetto, sei mesi dopo la morte del giudice, nel giugno di quell’anno. Ma io mi occupo di mafia, credo di poter dire di lotta alla mafia fin dal ’91. Nel 2011 ho cominciato a fare dei report per l’allora governatore Claudio Martini. Lo scopo? Far sì che la lotta alla mafia non si facesse solo al Sud, che ci fosse una visione e nazionale e internazionale».

Come venne accolta la Fondazione?
«Ci sono sempre anche quelli che non volevano che la Fondazione esistesse. No, mai discorsi diretti: lo capivamo da certe sfumature… Mi davano del pazzo: ma sempre dietro le spalle. Eppure a Firenze c’erano state le stragi del Rapido 904, dei Georgofili. E la tentata strage di via Toscanini, un palazzo intero. Non lo ricorda nessuno, eppure. Per fortuna ci furono solo feriti. Altro che esplosione di una caldaia…»

 

Parlava dell’antimafia del giorno prima…
«Troppo a lungo ci sono state superficialità politica, sociale, una responsabilità collettiva nel non prendere coscienza di questa realtà, nel non volerla affrontare. In alcuni casi in malafede, altri no. La Fondazione oltre a portare avanti il “Progetto sentinelle”, con interventi nelle scuole, si è impegnata e specializzata nell’analisi del fenomeno mafioso. Su che cosa fa e farà la Mafia: la lotta del giorno prima, appunto».

 

Le vostre analisi?
«Sette-otto anni fa noi parlavamo di sversamento di rifiuti, ad esempio. Prendiamo la recente indagine sul keu, lo smaltimento illegittimo e pericoloso dei fanghi del distretto conciario. Una operazione condotta in modo eccellente dalla Direzione distrettuale antimafia fiorentina, col pieno successo operativo di forze dell’ordine e procura. Ma dal punto di vista sociale essa rappresenta un insuccesso. Mi spiego: nel 2016 la Fondazione Caponnetto lanciò un allarme forte su qualcosa di simile a Palaia, nel Pisano. Tra poco inizierà il processo su quella vicenda. Però sul momento nessuno ci dette retta. Neppure le associazioni di categoria. Poi l’abbiamo visto…»

 

Fate polemica?
«Il nostro compito è questo. La denuncia. Ma ci consideriamo, siamo sempre al servizio delle Istituzioni. No, non vogliamo fare polemica e di certo non ci sostituiamo alle forze dell’ordine, figurarsi. Le sosteniamo così come sosteniamo la magistratura».

Salvatore Calleri
Salvatore Calleri

Avete allargato e approfondito le conoscenze. Allargato gli interessi, chiamiamoli così.
«Nel 2013 con la Fondazione “Mediterraneo” nasce l’associazione che studia fenomeni di mafia e anche di terrorismo, quello jihadista. Si chiama “Omcom”, Osservatorio Mediterraneo sulla criminalità organizzata, cura la parte analitica».

 

Ora i riconoscimenti superano diffidenza e poca considerazione?
«Fatichiamo, abbiamo poche risorse. Di positivo c’è la comprensione di un sistema. Da più parti ci sollecitano ad andare avanti. Anche per evidenziare e valorizzare il lavoro delle nostre forze dell’ordine. Io ritengo il nostro un Paese che nel contrasto alle mafie è più strutturato rispetto ad altri. Penso alla Germania ad esempio. Noi come strumenti di lotta siamo messi meglio».

 

Calleri, la mafia è variegata…
«Infatti negli anni la Fondazione non ha parlato solo delle mafie italiane. Ma anche di quella cinese, albanese, nigeriana. Abbiamo sempre fatto propri segnali precisi rilevati dalle forze investigative e rilanciato, anticipato la diffusione delle notizie. La recente vicenda dei 350 ettari sequestrati a Chiusdino a due imprenditori calabresi, è allarmante. Ci sono legami comprovati con una delle ‘ndrine calabresi più temibili, quella dei Grande Aracri. Chiusdino è una sorta di spada nella roccia».

 

Ma la Toscana ha o comunque può produrre antidoti e anticorpi sufficienti per contenere queste infiltrazioni?
«Speravo li avesse. Scopriamo invece che al momento non li ha. Ha abbassato la guardia. C’è ancora la tendenza a minimizzare, a sorvolare, per il quieto vivere. A non voler affrontare il problema in maniera seria. Mi riferisco al mondo della politica, ma anche a quello giudiziario. Ci siamo cullati sugli allori della regione bella, isola felice. Invece la mafia c’è. È come un virus che si adatta, muta. Una sorta di Covid».

 

A proposito: le difficoltà economiche preesistenti aggravate dalla pandemia…
«Hanno fatto da acceleratore a certi inserimenti. La mafia ha sempre liquidità, ingente, vuole riciclare e ricicla, traffica in droga. Ma la Toscana è appetita anche da società e personaggi provenienti dall’Est Europa. Oligarchi o ex oligarchi. O dall’America latina. Non è detto che tutti siano investitori sporchi, questo no. Ma bisogna conoscere tutto, analizzare tutto, censire tutto. O almeno, il più possibile. Bisogna capire una volta per tutte che l’autorità giudiziaria è l’antimafia del giorno dopo. A questo proposito plaudo alla strepitosa relazione del procuratore generale Marcello Viola. Ma bisogna sviluppare l’antimafia del giorno prima, a livello politico sociale. Mi rivolgo allora a tutte le Istituzioni. Giani in primis. Precisando, ci tengo a dirlo, che noi siamo politicamente trasversali».