Covid, due anni dopo: quale futuro ci aspetta?

Dalla pandemia all’endemia: la fine del Covid-19?

di Arnaldo Liguori

A più di due anni dalla comparsa del virus Sars-Cov-2, che causa la malattia denominata Covid-19, il mondo si chiede quando finirà questa pandemia. Ma la domanda precisa, in realtà, dovrebbe essere quale aspetto avrà questa presunta fine. Da quando è emersa la variante Omicron, molti sperano che questo coronavirus si trasformi in un virus «endemico», come l’influenza. Ma endemico non significa innocuo e per capire come sarà la nostra vita bisogna conoscere la differenza tra pandemia, epidemia ed endemia.

 

Pandemia • Indica la situazione in cui una malattia contagiosa si diffonde rapidamente in tutto il mondo coinvolgendo la maggior parte della popolazione, poiché quest’ultima non è immunizzata. È ciò che abbiamo vissuto negli ultimi due anni.

 

Epidemia • Si verifica quando una malattia contagiosa si diffonde rapidamente in un’area geografica specifica, coinvolgendo un numero di persone molto più alto rispetto a quello atteso. Un esempio è l’epidemia di Ebola che si è sviluppata in Africa occidentale tra il 2014 e il 2016 causando 12 mila morti.

 

Endemia • Si verifica quando una malattia contagiosa è una presenza costante, frequente e prevedibile in una determinata regione o popolazione. Un virus può scatenare un’epidemia e poi trasformarsi in una pandemia, fino a diventare endemico. È successo, ad esempio, all’influenza spagnola che tra il 1918 e il 1919 uccise più di 40 milioni di persone. Quel virus, chiamato H1N1, è mutato nel tempo e i suoi discendenti causano ancora oggi influenze stagionali e raffreddori.

Perché endemico non vuol dire innocuo • Benché un’endemia sia una situazione migliore rispetto a una pandemia, questo non significa la fine dei problemi. Tutt’altro. Nell’epidemiologia, un’infezione endemica è sostanzialmente quella in cui il tasso di contagio è statico, non in aumento, non in calo: cioè quando in media una persona ne infetta solo un’altra. Non riguarda la mortalità in sé. In altre parole, come ha spiegato l’epidemiologo Aris Katzourakis su Nature, «una malattia può essere endemica, diffusa e mortale». «La malaria ha ucciso più di 600 mila persone nel 2020. Dieci milioni si sono ammalate di tubercolosi quello stesso anno e 1,5 milioni sono morte». Endemicità, insomma, non vuol dire normalità.

 

Mutazioni impreviste • Un virus endemico, tra l’altro, non è per forza stabile: può mutare in forme più gravi. È successo, ad esempio, nel 2019 negli Stati Uniti con un’epidemia di morbillo particolarmente aggressiva. Il Sars-Cov-2 è mutato tredici volte e due di quelle varianti sono diventate dominanti: la Delta, altamente trasmissibile e più virulenta, e la Omicron, con la sua capacità di eludere il sistema immunitario, causando reinfezioni. Nulla esclude che possa mutare ancora. In buona sostanza, spiega Katzourakis, gli effetti di un virus dipendono da «comportamento, struttura demografica, suscettibilità e immunità di una popolazione: […] condizioni diverse in tutto il mondo possono consentire l’evoluzione di varianti di maggior successo e queste possono seminare nuove ondate di epidemie».

Cosa può fare chi governa • Il futuro del Covid-19 dipenderà, in buona sostanza, da due cose: le decisioni politiche e le scelte individuali, in particolare riguardo ai vaccini. A livello politico, è fondamentale uscire dalla logica emergenziale e ripensare i sistemi sanitari e le strutture pubbliche in modo che possano affrontare strutturalmente nuove ondate e recrudescenze della malattia. Bisogna utilizzare, secondo Katzourakis, «tutte le formidabili armi disponibili: vaccini efficaci, farmaci antivirali, test diagnostici e migliorare la comprensione su come fermare un virus attraverso l’uso di mascherine, distanziamento, ventilazione e filtrazione dell’aria».

 

Solidarietà • Inoltre, sul piano globale è necessario garantire un certo grado di immunizzazione – e quindi di vaccinazione – a tutti i Paesi. Questo vale in particolare per quelli africani, dove il tasso di vaccinati è ancora al 53 per cento. Più un virus si replica, maggiore è la possibilità che sorgano mutazioni problematiche. Oltre ad essere distribuiti più equamente, i vaccini dovranno, nel tempo, mutare e migliorarsi in modo che proteggano da una gamma più ampia di varianti.

 

Cosa possiamo fare tutti noi • A livello individuale, nel quotidiano, è importante non abbandonare tutte le precauzioni adottate in questi anni. Secondo l’immunologa Marta Rescigno, «il comportamento ideale nella fase endemica è mantenere le distanze in alcune situazioni, pulirci le mani più spesso, evitare gli assembramenti, autocontrollarsi con più attenzione». Soprattutto, sottolineano tutti gli esperti e le autorità sanitarie, è fondamentale vaccinarsi.

Milano, Ospedale San Raffaele. Un'ostetrica si congratula con Anne Christensen, che ha appena dato alla luce sua figlia Audrey (Alessandro Gandolfi).

Vaccinarsi e vaccinarsi ancora • «Non dimentichiamoci che Omicron sta portando in terapia intensiva i non vaccinati e può essere pericolosa per pazienti immunodepressi», sottolinea Giorgio Palù, presidente dell’Agenzia italiana del farmaco, della Società europea di virologia e componente del Comitato tecnico scientifico. È possibile che sia necessario vaccinarsi ogni anno, come si fa con l’influenza stagione. A patto che, chiarisce Palù, «che il vaccino sia polivalente, cioè efficace contro diverse varianti. Questo non eliminerà il virus, ma eviterà le forme gravi della malattia, i ricoveri e, quindi, le morti».

 

Conclusioni • La convivenza con il Covid-19, anche se diventerà endemico, non dev’essere presa alla leggera. L’epidemiologo Katzourakis lo chiarisce bene: «Pensare che l’endemicità sia lieve e inevitabile è più che sbagliato, è pericoloso: prepara l’umanità per molti altri anni di malattie, comprese ondate imprevedibili di focolai». Per questo dobbiamo abbandonare il pigro ottimismo e fare il più possibile per garantire che ciò non accada, sia come individui, sia come società.

Perché la sanità subisce ancora tagli e crisi?

di Mauro Cerri

L’illusione di un sistema sanitario solido e sicuro, specialmente per la Lombardia, la regione più colpita dall’emergenza sanitaria, si è infranta contro l’iceberg imprevisto della pandemia. Rispetto ai numeri spaventosi che il Covid ci ha costretto a scrivere e ad aggiornare – su tutti gli oltre 155 mila italiani morti – due le interpretazioni possibili. Quella istituzionale, secondo cui se il sistema sanitario non fosse stato in salute, ben peggiori sarebbero state le cifre; quella critica, che ha messo in discussione l’intera filiera medico/ospedaliera travolta dall’ondata Covid. Uno tsunami spaventoso, che ha messo in ginocchio ogni Paese, questo va detto, e che lascia tra le macerie due interrogativi: si poteva fare di più? In che condizioni versano ora la sanità lombarda e italiana?

 

In cerca di risposte • Se per rispondere alla prima servirà ancora del tempo, senza probabilmente mai trovare una risposta univoca, qualche elemento in più lo abbiamo per analizzare e soddisfare il secondo quesito. Perché il Covid non ha fatto altro che rendere più stringenti problemi che preesistevano alla sua diffusione: la carenza crescente di medici e infermieri, il mancato turnover con nuove risorse, gli eroi della pandemia – 359 quelli che hanno pagato con la vita il proprio impegno nella lotta al virus – e il collegamento tra ospedali e presidi territoriali.

 

Medici in fuga • Su entrambi i fronti si sta assistendo a un’allarmante diaspora che la pandemia ha amplificato. L’esodo era iniziato almeno cinque anni fa, svuotando gli ambulatori, ma anche le corsie di ospedale. Un fenomeno raccontato regolarmente dai giornali, denunciato dai sindacati di categoria e pagato a caro prezzo, quello della salute, dai cittadini, specialmente le fasce più deboli che non possono permettersi cure private.

 

La fotografia • Uno studio di Anaad Assomed (Associazione medici dirigenti) datato 2018 disegna la mappa delle carenze di personale specializzato, proiettandone il fabbisogno fino al 2025, regione per regione. Con una conclusione deprimente: nessuna di queste, fatta eccezione per il Lazio, sarà in grado di soddisfare il disavanzo netto determinato dall’uscita di specialisti. E lo ripetiamo, sono calcoli effettuati prima della pandemia.

 

Le cause • Quando si parla di sanità, vien facile pensare ai tagli che nell’ultimo trentennio, con proporzioni differenti a seconda delle regioni, sono stati applicati al settore pubblico, trasformando gli sprechi in carenze. Ma il problema reale ora non è solo economico ma organizzativo. In buona sostanza, quella che manca è la tanto acclamata programmazione. Nel periodo tra il 2019 e il 2021 sono andati in pensione circa 30 mila camici bianchi, con una stima per difetto, di età media di 65 anni, per effetto delle riforme pensionistiche che ne hanno incentivato l’uscita. Lo studio ipotizza per i medesimi motivi l’abbandono di altri 50 mila specialisti, la metà di quelli attivi. Che peraltro hanno l’età media più alta d’Europa, superiore a 55 anni.

Infermieri e medici del reparto infettivo dell’ospedale di Cremona, 2 Marzo 2020 (Matteo Corner)

Il mancato turnover • I neo specialisti non basteranno a coprire la voragine, secondo l’analisi Anaao, per colpa delle errate programmazione e contrattualizzazione delle borse di specialità, economicamente poco vantaggiose; in ogni caso mancherà il tempo necessario per un corretto trasferimento di conoscenze dagli anziani ai giovani con un decadimento del servizio offerto.

 

Focus specialisti • Le stime dicono che dei 53 mila contratti di formazione finanziati per il periodo 2018-2025 nelle università, cinquemila andranno persi per rinuncia, trasferimento di sede o cambiamento di scuola. Dei restanti solo il 75 per cento sceglierà di lavorare per il Sistema sanitario nazionale, mentre gli altri opteranno per il privato, per la carriera universitaria e/o per trasferirsi all’estero dove gli stipendi e le opportunità di crescita sono più allettanti.

 

Le regioni • In Lombardia e Piemonte entro il 2025 verranno a mancare circa duemila medici, in Toscana 1.800, in Emilia Romagna 600. Il Lazio dovrebbe invece godere di un surplus positivo di 900 unità, mentre la Sicilia è quella messa peggio con circa 2.250 specialisti mancanti all’appello. I numeri sono determinati dallo scarto tra previsione di medici in uscita e contratti di specializzazione avviati, tenendo conto della maggiore o minore propensione delle regioni a finanziarne aggiuntivi.

Una infermiera vestita da Babbo Natale prepara le dosi del vaccino anti Covid-19 nel punto vaccinale di Potenza (Tony Vece)

Le specialità in sofferenza • Se in assenza di interventi strutturali, il deficit totale di specialisti sfiorerà le 17 mila unità, riducendo da 213 – dato già tra i bassi di Europa – a 181 il numero di medici ogni 100 mila abitanti, le carenze non colpiranno in modo orizzontale tutti i reparti. La medicina d’urgenza, leggasi pronto soccorso, sarà quella più colpita anche per l’effetto disincentivante prodotto da due anni di pandemia vissuti in trincea dai medici della prima linea. Si tratta di una vera e propria fuga nella fuga dove la mancata programmazione del turnover si aggancia a fattori psicologici e salariali. Rimarranno a corto di personale anche le Pediatrie, mancheranno poi anestesisti e rianimatori, anche loro messi a dura prova dalla pandemia, quindi internisti, cardiologi, ginecologi, psichiatri e ortopedici.

 

Pronto soccorso • Un paragrafo a parte lo merita la situazione dei pronto soccorso dove oggi lavorano 12 mila medici, 4 mila in meno rispetto a quelli necessari, con punte di carenza oltre il 50 per cento in alcune regioni. La “crisi di vocazione” riguarda anche gli infermieri dei pronto soccorso, che dovrebbero essere 10 mila in più. Durante la pandemia si sono già registrate duemila uscite, a cui si aggiungeranno le quattromila previste fino al 2025, in reparti che assicurano ogni anno circa 20 milioni di interventi. Un’emorragia che i recenti finanziamenti ministeriali – pari a 147 milioni per 1.152 contratti quinquennali di specializzazione – non tamponeranno. Perché i concorsi vanno quasi deserti. In pratica, oltre la metà dei contratti finanziati non è stata assegnata. Lo scorso anno su 1.100 posti a disposizione, 520 sono rimasti scoperti. Significa che dei 147 milioni di euro finanziati 80 resteranno nel cassetto, a dimostrazione che il problema non è finanziario ma “giuslavoristico”. Ecco perché.

Genova. Un medico che indossa il dispositivo di protezione personale visita una paziente Covid-19 a bordo della nave da crociera MSC Splendid, convertita in ospedale (Sergio Ramazzotti)

Lo specializzando • A cosa si deve la crisi di vocazioni? Uno specializzando di medicina d’emergenza e urgenza guadagna 1.500 euro netti al mese circa nell’arco di cinque anni ma senza un effettivo contratto di lavoro. Semmai attraverso una borsa di studio universitaria, senza diritto a straordinari, indennità di esclusiva, ne equipollenza tra specialità: in pratica non può lavorare in altri reparti, a differenza dei colleghi delle altre specialità.

 

Le soluzioni • Gli effetti della mancata programmazione si toccano con mano già oggi nei reparti ospedalieri con organici ridotti e medici costretti a lavorare su turni gravosi, tra straordinari e rinuncia alle ferie, visto il lento inserimento di nuove risorse. Circostanza che obbliga le aziende sanitarie a ricorrere ai medici a gettone se non a rinunciare ai servizi importanti per il cittadino. Per Anaoo Assomed la chiave non è certo aumentare i posti disponibili nelle università di Medicina e Chirurgia, sarebbe uno spreco, ma incrementare i contratti di formazione specialistica, misura applicata negli ultimi 2 anni, portandoli a 10.000 all’anno. Il sindacato Als va oltre chiedendo il cambio di inquadramento dei medici specializzandi con contratti ad hoc e tutte le tutele del caso. Basta con le attuali borse di studio: la copertura economica sarebbe garantita dagli 80 milioni inutilizzati.

 

Medici di base • Se possibile, ancor più drammatica risulta la carenza dei medici di famiglia con cui le famiglie italiane si misurano da tempo. Pensionamenti, ambulatori che chiudono, mancati rimpiazzi e interi territori sguarniti del primo presidio medico. E per chi rimane liste lunghissime di pazienti, anche 1.500, quota massima pro capite, e una mole sempre più pressante di incombenze burocratiche. Per questi e altri motivi i medici di base nei giorni scorsi hanno scioperato, manifestando davanti al ministero della Salute.

Numeri • Qualche dato per inquadrare il fenomeno: secondo la Federazione degli Ordini dei Medici, 1,5 milioni di italiani da Nord a Sud sono al momento senza medico di famiglia. La Lombardia non sfugge a questa dinamica, con 786 posti vacanti messi a bando lo scorso giugno. I primi mesi del 2022 hanno visto l’abbandono di 72 mutualisti andati in pensione e altri 96 che si preparano a seguirli. In tutta la regione i medici di famiglia sono circa 5.700 per un totale di 8,5 milioni di assistiti. I pediatri sono poco più di mille, metà dei quali vicini alla quiescenza, per un milione e passa di minori assistiti. Se i bandi delle Ats non bastano a coprire i posti vacanti – molti concorsi non raccolgono candidature – è necessario anche in questo caso rendere più appetibile il percorso di formazione specialistica. All’ultimo concorso si sono presentati in 530 per 600 borse di studio triennali. Sono malpagate, denunciano i sindacati, non ne vale la pena. Così, mentre fuori dagli uffici preposti si allungano code assurde anche per il cambio medico, i dirigenti sanitari si domandano cosa succederà nel 2023 quando altri 14 mila medici di fiducia italiani saluteranno, quintuplicando gli abbandoni tra il 2013 e il 2019. Le proiezioni per gli anni successivi allargano le dimensioni della fuga a oltre 30 mila unità. A questo punto il medico di famiglia diventerebbe l’eccezione.

 

Occasione Pnrr • Il Piano nazionale di ripresa e resilienza varato dal governo Draghi stanzia 4 miliardi per la sanità e individua un nuovo modello di assistenza attraverso la costruzione di Case e ospedali di comunità sul territorio, dopo il fallimento delle cure a domicilio (attraverso le Usca) evidenziato dal Covid. Le nuove strutture saranno 1.288 da qui al 2026 e la Lombardia ha già votato la riforma sanitaria per adeguarsi. Tuttavia le associazioni di rappresentanza pretendono che quei soldi vengano spesi e investiti anche sul personale necessario ad avviarle. Sul fronte dei medici di famiglia, il Pnrr stanzia le risorse per 900 borse di studio per i prossimi tre anni. Bene, ma non basteranno.

Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in prima fila (Filippo Attili)

Cosa non ci lasceremo alle spalle

di Valentina Bertuccio D’Angelo

Due anni fa un dramma che ci sembrava lontano nello spazio e nelle possibilità irrompeva nelle nostre vite. A distanza di due anni e 155 mila morti, con uno stato di emergenza ancora in corso ma sempre meno giustificato, forse l’Italia sta trovando la via della normalità post Covid. Ma non saremo più quelli di prima. Ci saranno delle cose che, anche con la fine della pandemia, non potremo lasciarci alle spalle. Dalle mascherine, prima “vezzo” asiatico, poi oggetto del desiderio e ora prodotto da supermercato. E ancora: lo smart working, gli acquisti e le commissioni online, le videochiamate con amici e parenti, le sessioni di psicoterapia o yoga via web, le restrizioni alla libertà.

 

Far finta di nulla: impossibile e non auspicabile • Insomma, far finta che in questi due anni non sia successo nulla, non sarà possibile. «E non sarebbe neanche auspicabile. Significherebbe essere impermeabili a ciò che accade e incapaci di imparare», dice Elena Colombetti, professoressa di Filosofia Morale alla Cattolica di Milano e autrice, con altri colleghi, del libro “Vulnus. Persone nella pandemia” (Mimesis Edizioni). «Quello che serve è invece una riflessività per ripensare a quanto è accaduto, a come abbiamo risposto, alle risorse che abbiamo saputo mettere in campo e a quanto ci è mancato».

Cinisello Balsamo (Milano, Italia), Irene Barrientos nella camera della casa dove vive insieme al marito e a quattro figli, messa a disposizione dalla Fondazione Progetto Arca. Con l'emergenza Coronavirus i due genitori hanno perso entrambi il lavoro e per questo viene fornito loro periodicamente anche un pacco viveri (Alessandro Gandolfi)

Cos’è cambiato • «L’improvviso confinamento nelle case ha fatto fare un deciso passo avanti nell’informatizzazione del Paese, con un’accelerazione mai vista prima. Allo stesso tempo ci ha rivelato che la risposta tecnica è totalmente insufficiente per vivere bene e che le relazioni umane non sono ricaricabili con una rete capillare di servizi. Abbiamo fatto esperienza che pensare le città, i flussi di lavoro, le strutture solo in funzione dell’efficienza consegna a una solitudine inumana, perché pensiamo alle relazioni solo nei termini di scambio: di servizi, informazioni, prodotti, che però non comprende l’unicità dell’altro né il suo ruolo nella strutturazione della nostra storia e della nostra identità che è sempre anche una identità relazionale».

 

Recuperare le relazioni • Tra gli aspetti da recuperare ci sono proprio le relazioni. «Siamo stati molto bravi mettendo in campo risorse e creatività – prosegue Colombetti – tuttavia il distanziamento fisico, il contatto reso possibile solo in casi di una necessità seria e documentabile, le prestazioni mediate dalla rete, ci ha condotto a un digiuno prolungato dalle relazioni gratuite, dal tempo non codificato, dalla condivisione del bello, della sorpresa dei gesti inaspettati. L’esperienza della pandemia può aiutarci a ripensare a un’architettura dei luoghi, dei ritmi di lavoro, dell’organizzazione sociale che non abbia come unico parametro quello dell’efficienza. Ci sono dei beni che si possono fruire solo stando in queste relazioni. La pandemia ha costituito una battuta di arresto forzata che ci ha riconsegnato una consapevolezza sull’importanza delle relazioni e del valore del singolo che non si esaurisce in quello della sua funzione. Una consapevolezza da tempo obnubilata e che stava degenerando in quella che hanno definito “una società della stanchezza”».

 

Le mascherine • Questi due anni ci hanno segnato nel profondo, basta guardare a quanto successo dopo la fine del divieto delle mascherine all’aperto; almeno la metà dei passanti le usa ancora. Eppure fino al febbraio 2020 in Italia, in Europa, erano un oggetto sconosciuto fuori dagli ospedali. «Il tema delle mascherine mi sembra molto secondario», continua la professoressa Colombetti. «Ma può aiutarci ad avere uno sguardo meno autoreferenziale. Quella che ci sembrava un’eccentrica abitudine orientale si è rivelato un dispositivo utile. Forse da qui in avanti ci sembrerà normale che ogni tanto qualcuno si copra il volto, magari nei mesi più esposti all’influenza. Tuttavia anche qui è importante riflettere. Le mascherine ad esempio mettono in difficoltà coloro che hanno bisogno di leggere il labiale. È un particolare, ma dalla pandemia possiamo portarci dietro una rinnovata attenzione alle reciproche fragilità».

Mascherine recuperate su una spiaggia nella zona residenziale di Discovery Bay, nella periferia dell'isola di Lantau (Anthony Wallace)

Lo smart working • Oltre alle mascherine, l’Italia ha “scoperto” anche lo smart working, modalità già usata all’estero e quasi per nulla da noi. Improvvisamente gli uffici si sono svuotati. «Quello che abbiamo vissuto non è stato un “lavoro agile”, ma un telelavoro. Per lo più i lavoratori hanno mantenuto gli stessi orari e lo stesso format, semplicemente dislocando le attività professionali a casa. Questa esperienza ci ha dimostrato che non è necessario essere sempre fisicamente presenti in ufficio e che la possibilità di alternare giorni da casa con altri sul luogo di lavoro può favorire l’armonia tra le dimensioni della vita: la professione, la famiglia, gli amici, gli interessi culturali e sportivi… Anche dal punto di vista ambientale ne trarremmo giovamento. Le aziende lungimiranti credo che non torneranno indietro».

 

Ma non mancano le criticità • «Le relazioni non si possono appiattire sui collegamenti virtuali: c’è tutta una ricchezza di interazioni che richiede i tempi informali della vicinanza, anche con i colleghi. La stessa creatività e soluzioni nuove ai problemi a volte nascono da un commento condiviso in una pausa. Come donna e come filosofa sono convinta che il pensiero si alimenti nel dialogo, dia-logos, una parola che sta tra due, e pertanto occorre costruire contesti che lo rendano possibile. La prossimità è una ricchezza, non qualcosa da cui ci si deve difendere, anche se è impegnativa». Anche perché – e lo sa bene chi ha fatto lunghi periodi di lavoro da casa – si finisce per non avere più confini tra vita privata e lavorativa, tra ufficio e casa. «C’è stata una commistione tra ambienti domestici e professionali. Per molti mesi la dimensione virtuale delle stanze di lavoro e di riunione ha avuto luogo nella fisicità di uno spazio che appartiene a un livello di vita più intimo. En-timeo, tenuto dentro, che può ma non necessariamente deve essere svelato. Con il telelavoro siamo entrati nelle case altrui con microfoni e telecamere. Non si torna indietro, ma irreversibile non significa immodificabile. Le case vanno ripensate tenendo presente questa trasformazione, senza colonizzare reciprocamente ciò che è intimo e ciò che pubblico».

 

Le restrizioni • C’è poi il tema delle limitazioni alla libertà di riunione e spostamento, a cui forse dovremmo abituarci. «È un argomento complesso. Reputo però che, superata l’emergenza, siano limitazioni che devono scomparire. Come ben sanno coloro che si occupano di filosofia politica, lo stato di emergenza può richiedere decisioni e norme che sono però finalizzate al ritorno alla normalità. Se l’emergenza diventasse indefinita, smetterebbe di essere tale».

Roma, 15 marzo 2020, le persone partecipano al flashmob “Illuminiamo l’Italia” durante il lockdown nazionale (Giuseppe Lami)

«Non siamo ancora alla normalità»

di Agata Finocchiaro

Green pass e vaccino sono le armi con cui l’Italia sta guadagnando l’uscita dalla quarta ondata Covid. Oltre 155 mila morti in due anni, più di 12 milioni di contagiati: in pratica un italiano su sei ha fatto i conti con il virus, ma la partita non è ancora conclusa. Ci troviamo di fronte a una «situazione in miglioramento ma non ancora di normalità», sottolinea in un’intervista a Il Giorno il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri.

 

Onorevole Sileri, lei è stato in prima linea nell’emergenza Covid, prima da viceministro della Salute e ora come sottosegretario, cosa è cambiato nel secondo anno di pandemia? «Nel secondo anno abbiamo avuto i vaccini. Nel 2020 eravamo stati colti di sorpresa da un virus nuovo e di cui non sapevamo nulla, ma già alla fine dello stesso anno, grazie ad un impegno scientifico internazionale che non ha precedenti nella storia, abbiamo avuto a disposizione vaccini con una efficacia eccezionale, in grado di ridurre di oltre il 90% l’impatto della malattia severa. I vaccini sono lo strumento che ci sta portando fuori dalla pandemia, e che ci consentirà in futuro di convivere col virus».

 

Ritiene che l’Italia abbia perso quel richiamo all’unità nazionale, quel senso di solidarietà riscoperto nei primi mesi della lotta al virus? «Tutt’altro, io credo che quel senso di solidarietà e quella responsabilità collettiva che gli italiani hanno dimostrato nei primi mesi della pandemia siano gli stessi che hanno determinato il successo della campagna vaccinale che ci sta permettendo oggi di tornare alla nostra vita di sempre. Il 90 per cento e oltre di nostri concittadini che hanno deciso di vaccinarsi lo hanno fatto per se stessi certamente, ma anche per proteggere i propri familiari e la collettività: è questa la migliore testimonianza di una comunità matura e responsabile, molto più che le bandiere sui balconi».

Il sottosegretario della Salute Pierpaolo Sileri a Napoli in visita ai reparti all'Istituto dei tumori “Pascale”, nel 2020, quando era viceministro (Ciro Fusco)

Nella prima ondata, quando le terapie intensive di regioni come la Lombardia erano piene, si è parlato spesso di una «scelta tra chi vive e chi muore», c’era una indicazione ad hoc per la disponibilità di posti a pazienti con «maggiori chance di sopravvivenza»? «C’è stata una prima fase, breve per fortuna, nella quale in alcune regioni i reparti di terapia intensiva si sono trovati di fronte a scenari di vera e propria medicina di guerra, ma anche grazie al supporto della Protezione Civile siamo riusciti nella grande maggioranza dei casi a garantire la migliore assistenza possibile in uno scenario emergenziale. Non va poi dimenticato il grande sforzo fatto dal sistema sanitario nazionale, che ha aumentato in misura significativa i letti disponibili in terapia intensiva in pochissimo tempo».

 

Com’è cambiata la situazione nelle terapie intensive con l’arrivo dei vaccini? «Per capire quanto abbiano inciso i vaccini nel ridurre la pressione ospedaliera basta far parlare i numeri: al picco della prima ondata, all’inizio del mese di aprile 2020, c’erano oltre 4.000 persone in terapia intensiva, al picco della seconda, alla fine di novembre, poco meno di 3.900, e al culmine della terza, primi giorni di aprile 2021, circa 3.800. A partire dall’estate 2021, grazie alla campagna di vaccinazione, i numeri sono drasticamente cambiati: dalla fine dell’estate 2021 ad oggi, durante l’ondata Delta, abbiamo avuto al massimo 1.700 ricoverati nei reparti di terapia intensiva. Il 23 febbraio 2021 c’erano 2.146 pazienti Covid ricoverati in terapia intensiva; un anno dopo, il 23 febbraio 2022, i ricoverati sono 886, nella grande maggioranza persone non vaccinate o di età avanzata o con patologie che aggravano il quadro clinico».

 

Lei si è trovato talvolta in disaccordo con la linea più rigorista del Governo, ritiene che qualche concessione in più poteva essere fatta sul fronte delle aperture? «Il governo ha sempre deciso in maniera collegiale, ed ha sin dall’inizio adottato un metodo di lavoro che potremmo sintetizzare con la frase inglese “follow the science”. È naturale che ci possano essere state, e vi siano ancora, sensibilità diverse, ma alla fine si è sempre trovata la sintesi migliore grazie al fatto che le decisioni hanno avuto sempre alla loro base un solido razionale scientifico».

Alcuni manifestanti bruciano Green pass e finti vaccini per protesta in piazza Castello, a febbraio 2022, a Torino (Tino Romano)

Secondo lei, nella partita contro la pandemia come ha giocato l’Italia, considerando il primo tempo del Conte II e il secondo tempo del governo Draghi? «L’Italia è stata, dopo la Cina, il primo paese investito dal virus, ed è stata quindi suo malgrado un laboratorio al quale hanno guardato le altre nazioni che dopo di noi sono state colpite dalla pandemia. Nel complesso, pur con gli inevitabili errori dovuti al fatto che abbiamo navigato per due anni in acque sconosciute, io reputo che i due governi che hanno gestito la situazione abbiano reso un buon servizio ai cittadini».

 

L’aumento della platea di immunizzati (circa 92 per cento tra vaccinati e guariti) ha segnato una svolta nella lotta al virus e nell’azione di governo, con il progressivo allentamento delle restrizioni. Non teme una nuova ondata di contagi in caso di eliminazione del green pass con la fine dello stato di emergenza il 31 marzo? «Il green pass è stato uno strumento decisivo per tenere l’Italia largamente al riparo, nella seconda metà del 2021, dall’ondata pandemica da variante Delta che ha invece colpito duramente altre nazioni come Germania e Regno Unito. Oggi lo scenario epidemiologico è cambiato, la variante Omicron ha un minore impatto clinico soprattutto grazie all’elevata percentuale di immunizzazione della popolazione, quindi è giusto iniziare a ragionare su una rimodulazione delle misure restrittive, tra cui anche il green pass, ma sempre con la prudenza e la gradualità che sono richieste da una situazione che è in miglioramento ma che non è ancora di normalità».

 

Cosa dobbiamo aspettarci il prossimo autunno, ci sarà una quinta ondata come a Hong Kong e nuove chiusure? «L’evoluzione del virus va costantemente tenuta sotto controllo, così come bisogna fare ogni sforzo per ridurre la circolazione del virus in tutto il mondo raggiungendo l’obiettivo del 70 per cento della popolazione mondiale vaccinata entro il 30 giugno. Ma l’esperienza fatta in questi anni, e la storia delle pandemie del passato, ci indicano lo sviluppo più probabile, che è quello della progressiva endemizzazione del virus, che diventerà un “compagno di viaggio” della specie umana, che lo terrà sotto controllo con i farmaci e i vaccini, come già avviene oggi per altri patogeni come l’influenza».

Una cameriera mentre consegna le birre al Tower Drive-In di Pontinia. Non essendo più possibile divertirsi in modi tradizionali, vengono adottate nuove strategie: una di queste è la rinascita dei Drive-In (Federico Scarchilli)

CoviDiaries e il racconto della pandemia

Molte delle fotografie contenute in questo speciale provengono da CoviDiaries, un progetto collettivo realizzato dai fotogiornalisti di Parallelozero che documenta, attraverso la fotografia, i segni indelebili della pandemia su ciascuno di noi. Una narrazione per immagini protratta nel tempo, diventata un’occasione per riflettere sulle cose del mondo e sulla loro complessità. Un diario visivo, un lungometraggio ridotto ai suoi fotogrammi essenziali, un album della memoria.

 

Per vedere tutte le foto di CoviDiaries clicca qui.

 

«Fin da subito come Parallelozero abbiamo sentito l’esigenza di realizzare una sorta di scatola della memoria, da aprire quando tutto questo sarebbe finito – spiega Sergio Ramazzotti, giornalista, fotografo e cofondatore di Parallelozero – È con questo presupposto che abbiamo creato CoviDiaries. Oggi che si avvicina il secondo anniversario dell’inizio della pandemia, benché non siamo ancora usciti dal tunnel, ci sembra il momento giusto di aprire quella scatola, e vedere cosa contiene. È un atto simbolico, che ci auguriamo possa tenere vivi o riportare a galla i ricordi di un’esperienza collettiva durante la quale ci siamo scoperti capaci di cose che non sospettavamo, e che ci hanno resi orgogliosi di essere cittadini del nostro Paese. Ed è anche un modo per rendere un tributo e, ci auguriamo, dare un senso alle troppe vittime del virus».

Persone care, familiari, amici (come Serena, fotografa romana), sconosciuti. Proiettati a grandezza naturale, durante una videochiamata, sul divano di casa (Marco Trinchillo)sconosciuti. Proiettati a grandezza naturale, durante una videochiamata, sul divano di casa. Un modo di avvicinare nella distanza e alleviare il senso di solitudine (Marco Trinchillo)

Il progetto segue tredici linee narrative fatte di voci, volti e avvenimenti diventati il simbolo dei mesi dell’epidemia in Italia: nella sofferenza, e al tempo della ripartenza, ciascuno è una grande storia di coraggio e di speranza. Tredici capitoli di un racconto corale in cui il Paese mostra il meglio di sé.

 

Parallelozero è un’agenzia che racconta storie da oltre quindici anni. Grazie a un team di professionisti – fotografi ma anche giornalisti, videomaker, art director – trasforma idee creative in prodotti di narrativa multimediale, sia per l’editoria tradizionale che per la comunicazione corporate.

 

Il progetto CovidDiaries è diventato anche una mostra alla Fabbrica del Vapore di Milano conclusasi il 25 febbraio e realizzata in collaborazione con Fotografica (Festival di Fotografia di Bergamo), con il contributo di Fondazione di Comunità Milano, con il patrocinio del Comune di Bergamo e con il sostegno di Vivisol – Sol Group.