La pandemia: origini e scelte sbagliate

Cosa sappiamo dei giorni di Wuhan

di Enrico Fovanna

Tra la scoperta del primo caso di Covid al mondo e l’esordio del virus in Italia passano esattamente due mesi e undici giorni. Per passare da Wuhan, in Cina, a Codogno insomma, tra l’11 dicembre 2019 e il 20 febbraio 2020 il contagio percorre in 71 giorni gli 8.710 chilometri in linea d’aria con una velocità media di 122,6 chilometri al giorno. Queste le certezze sull’origine e la propagazione del coronavirus ma sul resto, a due anni di distanza, i dubbi prevalgono ancora sui dati. Ma procediamo proprio da quelli.

 

Il paziente zero • Di sicuro sappiamo che il Covid-19 si presenta all’umanità l’11 dicembre 2019 (e non l’8 come attestato nei primi mesi) al mercato di Wuhan, megalopoli cinese da oltre 11 milioni di abitanti. I due undici riportano alla memoria tutte le sinistre teorie, spesso un po’ strampalate, sulle Due Torri di New York, ma non divaghiamo. Il primo “untore”, o se preferite il paziente uno, è una venditrice del mercato (la signora Wei). Come viene contagiata? Tutte le teorie portano ad escludere una fuga dal laboratorio, privilegiando piuttosto un salto del virus dall’animale all’uomo, proprio tra i banchi di quel mercato degli animali di Huanan, appunto.

 

Il laboratorio assolto • Sarà paradossalmente un’accurata ricerca americana, pubblicata su Science, ad assolvere l’istituto di virologia di Wuhan per spostare i riflettori sulle bancarelle della città cinese. Quanto per ragioni politiche o quanto in ossequio al rigore scientifico non lo sapremo mai. Di fatto Michael Worobey, professore di Ecologia e Biologia Evolutiva dell’Università dell’Arizona, lo certifica: «Nonostante nessun mammifero del mercato sia mai sottoposto a un test, il fatto che la maggior parte dei casi sintomatici fosse collegata al contesto di Huanan è una prova significativa di un’origine animale della pandemia in quel luogo».

Un uomo in un mercato in una zona residenziale di Wuhan, in Cina, dove il virus Sars-Cov-2 è stato scoperto per la prima volta (Roman Pilipey)

L’area del contagio • La tesi è semplice: in una città così enorme, sostiene Worobey, tutti i primi casi sono circoscritti in un’area di cento metri per cento circa. Difficile dunque confutare l’idea che tutto sia partito da lì. Ci sono però alcuni elementi che alimentano i dubbi. Primo: l’indagine condotta dall’Oms e da esperti cinesi – e molto criticata – già riteneva «estremamente improbabile» la fuga dal laboratorio. La tesi di Science sembra puntare proprio al sostegno della Cina.

 

Gli studi sul genoma • Il secondo elemento. La comunità scientifica sostiene in generale che le conclusioni siano valide, ma molti obiettano che le prove raccolte siano ancora insufficienti per stabilire come sia iniziata la pandemia. Studi sui cambiamenti del genoma del virus – incluso uno del professor Worobey – sostengono che il primo caso potesse essere riconducibile addirittura a metà novembre 2019. Worobey, pochi mesi prima, scriveva sempre su Science che l’ipotesi dell’errore umano in laboratorio era da prendere in seria considerazione.

 

La necessità di un colpevole • Le perplessità salgono in tutto il mondo. «In questo momento sembra che sia più importante trovare un colpevole piuttosto che scoprire la verità», dice Isabella Eckerle, citata da SwissInfo, direttrice del Centro per le malattie virali emergenti presso l’ospedale universitario di Ginevra. Anche un altro rinomato virologo svizzero, Didier Trono del Politecnico Federale di Losanna, è pessimista rispetto alla possibilità che si riesca a capire cosa sia successo realmente, e crede che la questione sia diventata più politica che scientifica. «Dobbiamo essere preparati a non avere una risposta definitiva a causa delle difficoltà scientifiche e delle implicazioni politiche, ma in questa fase la probabilità di una trasmissione da animale a uomo rimane alta», è la sua teoria.

Ricercatori si preparano a iniettare il virus dell'influenza di tipo A(H1N1) in un laboratorio a Wuhan, nel giugno del 2009 (Zhou Chao)

Le tensioni geopolitiche • La tesi della fuga dal laboratorio in realtà ha poche prove a supporto, ma ha sollevato soprattutto molte tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Cina. Nella primavera del 2020 Trump parlava apertamente del “virus cinese”, lo stesso Biden aveva puntato l’indice su Pechino e le repliche piccate della Cina non si erano fatte attendere, con tanto di minacce sulla prosecuzione dei rapporti commerciali. Ma non è tutto. A fare le spese delle denunce sono stati proprio i cinesi. Alcuni, s’intende.

 

«Chi sa, taccia» • Tra loro, in testa c’è Zhang Zhan, una blogger di Pechino che, a causa dei suoi racconti pubblicati sui social a dicembre, è stata condannata a quattro anni di prigione. Dopo l’ennesimo sciopero della fame, era stato il fratello a denunciarne le condizioni in carcere: «Potrebbe non superare l’inverno. Se dovesse morire, voglio che tutti la ricordino com’era». Aveva rilasciato un paio di dichiarazioni al Wall Street Journal. Il suo ultimo accesso del fratello sul Telegram segna proprio un’altra data sinistra, l’11 novembre 2021. Poi il ragazzo è sparito anche su Twitter e non se n’è più saputo niente.

Quelle morti evitabili in Val Seriana

di Rocco Sarubbi

A Bergamo, si chiama “bosco di città”. Una oasi verde ricavata tra il cimitero e i binari di una linea del tram. Qui sta sorgendo il memoriale in ricordo dei defunti morti per il Covid-19 tra il 23 febbraio e il 30 aprile 2020, quando la prima ondata della pandemia si era abbattuta come uno tsunami nella Bergamasca. In particolare nella Bassa Valle Seriana. Siamo a Nembro, uno dei comuni dove il virus si è insinuato maligno e ha picchiato duro. Qui verranno piantati cento cipressi e una lastra che riflette il cielo, una panca di pietra grezza perché «si deve stare seduti quando il ricordo è pesante», ha detto il sindaco di Nembro, Claudio Cancelli. La targa è una sorta di libro del dolore di Nembro, o Spoon River, con quei 188 nomi de morti di Covid, 164 solo a marzo. Un flagello, su una popolazione di 11.500 abitanti.

 

I pezzi di una comunità • Molti di quelli che non ci sono più si conoscevano, erano amici, una generazione spazzata via, come ha scritto Gigi Riva nel suo libro “Il più crudele dei mesi”. Storie di 188 vite, (Mondadori). Riva, firma per il Giorno, Espresso e Corriere, conosce bene il territorio. È nato a Nembro, suo papà aveva lavorato all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo. Serve la bassa Valle Seriana, una comunità ferita. Ed è qui che domenica 23 febbraio è stato chiuso e poi riaperto il Pronto Soccorso. Il Covid era già presente. Quando a Codogno venne scoperto il paziente 1 all’ospedale di Alzano Lombardo c’erano già infetti. Da quel giorno abbiamo cominciato a sentire come vicini paesi come Alzano Lombardo, Nembro, Villa di Serio, Albino e su su nella Valle Seriana. Abbiamo cominciato a convivere con le sirene delle ambulanze, le campane a morto. Paesi vuoti, strade deserte. E l’immagine simbolo di quei camion militari infilati uno dietro l’altro che trasportavano le bare per altri inceneritori fuori provincia.

Un funerale a Nembro, nel marzo del 2020. Il paese, in provincia di Bergamo, si trova nella zona della Val Seriana colpita da un elevato numero di contagi e di vittime per il Covid-19 (Matteo Corner)

Il prezzo degli errori • La zona rossa a Nembro e Alzano Lombardo non fu mai istituita, ma avrebbe potuto evitare tra le duemila e le quattromila vittime in Val Seriana. I due dati, una forbice tutta da spiegare, sono al centro di una stima spuntata da indiscrezioni sulla maxi consulenza che il professore dell’università di Padova, Andrea Crisanti, ha depositato a gennaio in procura a Bergamo, dove i magistrati da quasi due anni indagano per epidemia colposa sulla gestione della pandemia. E poi c’è la non applicazione del piano epidemiologico, che secondo gli inquirenti, non venne aggiornato. Ci sono stati anche degli indagati. «Sì, nella mia relazione c’è un calcolo sulle vittime che si sarebbero potute evitare», si era lasciato sfuggire il microbiologo quel giorno entrando in procura, ribadendo poi il concetto all’uscita. Poi però ufficiosamente era trapelato quel range, tra duemila e quattromila vittime, senza alcun commento del procuratore Antonio Chiappani.

 

La perizia sulle morti • Un dato pesante, nel contesto della mortalità di Bergamo tra fine febbraio e fine aprile del 2020: fu la più alta d’Europa sul totale della popolazione, con 3.100 vittime di Covid certificate, cioè sottoposte al tampone prima del decesso, ma 6.200 in più, complessivamente, rispetto alla media dello stesso periodo degli anni precedenti, quindi con altre tremila persone morte nelle case, sulle ambulanze, comunque senza un tampone ma con sintomi di sospetto coronavirus. «Sulla mancata zona rossa sono emerse criticità», aveva spiegato Crisanti lasciando intendere che, anche sotto il profilo penale, la mancata istituzione dei divieti in Val Seriana potrebbe risultare significativa. Il professore aveva accennato anche al suo modello matematico: «L’abbiamo elaborato ed è stato validato: sono stati ricapitolati i morti giorno per giorno». E l’andamento dei decessi è stato confrontato con più fattori, anche con la sieroprevalenza, ovvero la diffusione del virus in una data popolazione, che a Nembro e Alzano Lombardo ha toccato picchi da primato nel mondo occidentale, fino al 50 per cento.

Il virologo Andrea Crisanti al termine dei lavori dei pm di Bergamo sulla gestione della pandemia di Covid-19 nella città lombarda, a gennaio 2022 (Riccardo Antimiani)

Responsabilità • La certezza è che il focolaio fu devastante, ora la procura tenterà di capire al meglio quanto i numeri sulle conseguenze della mancata zona rossa siano utilizzabili in ambito penale. E in che termini tutta la vicenda dei divieti che non ci furono in Val Seriana, offra davvero profili di reato: su questo punto negli ultimi mesi l’approccio dei pubblici ministeri di Bergamo sembra cambiato, la discrezionalità politica di quella scelta è rivalutata anche alla luce di documenti acquisiti al ministero della Salute. Meno convinta sembra invece l’azione penale sul fronte dell’ospedale di Alzano Lombardo: in base ai sintomi è stato ricostruito che già quel giorno, tra pazienti e medici, c’erano più di 100 persone con sospetta infezione da Covid.

Il primo lockdown e ciò che non va dimenticato

di Agata Finocchiaro

Due anni fa l’Italia conosceva il primo lockdown nazionale in Europa. Strade deserte, negozi chiusi e un silenzio surreale, popolato di spettri in tuta bianca che facevano la spola tra case svuotate e ospedali sempre più affollati. Non sono solo 24 mesi di pandemia in Lombardia, la regione che ha pagato il prezzo più alto in termini di vite spezzate (oltre 38 mila morti): questo è il terzo inverno col Covid. In Bergamasca, come emerso dall’inchiesta sulla mancata zona rossa, si contavano centinaia di casi già a dicembre 2019, anche se non si sapeva ancora di quale virus si trattasse.

 

Cartoline di guerra • Ventiquattro mesi di pandemia e tre inverni, tre anni scolastici a singhiozzo, tra didattica in presenza e a distanza. Un’eternità… tanto che sui balconi sono sbiadite le bandiere arcobaleno e nessuno ripete più il mantra “Andrà tutto bene”. Ma chi è stato nella prima linea dell’emergenza Covid negli ultimi due anni, come Luca Lorini, direttore dipartimento Emergenza urgenza e area critica dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ora ne è certo: «Andrà tutto bene perché abbiamo i vaccini».

 

Perdite • «In questo secondo anno di pandemia è successo di tutto», sottolinea Lorini. «I vaccini hanno costretto il virus a modificarsi e a trovare, come stiamo vedendo con Omicron, una strada per cercare di convivere senza ammazzarci tutti. La scienza e la medicina hanno corso come non mai, un numero di informazioni e di farmaci in così poco tempo non si è mai visto in tutta la storia della medicina. Ma è successa anche una cosa per me inspiegabile, e cioè che una fetta di popolazione, pur avendo il vaccino disponibile, e gratis, lo rifiutasse. Mai avrei pensato che uno che vive a Bergamo e ha seppellito almeno un conoscente, a volte amici e genitori, potesse decidere di non vaccinarsi».

Bergamo, medici e infermieri attorno a un paziente Covid-19 che sta per andare in arresto cardiaco nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Giovanni XXIII, nei giorni in cui l’afflusso di nuovi pazienti ha messo in grave crisi la capacità di risposta della struttura (Sergio Ramazzotti)

Disuguaglianza vaccinale • Oggi in Italia si contano circa cinque milioni di non vaccinati, ma resta il problema dei Paesi che non riescono ad accedere al vaccino. «È così e non possiamo permettercelo, per loro e per noi – osserva Lorini –. Ogni persona che si immunizza dovrebbe regalare un vaccino a un paese povero: uno lo faccio io e uno lo regalo. Bisogna vaccinare il mondo, mettere a disposizione i vaccini e la tecnica per vaccinare tutti, è una questione di diritti ma anche di difesa dell’Occidente. Quanto ai no vax, se in Italia rappresentano una sparuta quota è grazie al governo Draghi che, rinsaldando l’unità nazionale, ha scelto la linea della fermezza con green pass e obbligo vaccinale. Altrimenti oggi avremmo 10 milioni di persone non vaccinate e i numeri nelle terapie intensive sarebbero ben diversi».

 

Cosa è cambiato • I ricoveri sono la cartina di tornasole dell’efficacia dei vaccini, soprattutto nell’epicentro della prima ondata, quando al Papa Giovanni (900 posti letto, di cui 73 di terapia intensiva) morivano 25 persone al giorno, contro i 100 decessi l’anno del periodo pre Covid. E i numeri più recenti parlano chiaro. Nell’ultima ondata, dal primo settembre scorso, quando i vaccinati avevano due dosi, ma non ancora la terza, sono state ricoverate in rianimazione circa 100 persone in cinque mesi, nello stesso periodo della prima ondata Covid ne venivano ricoverate 500. Allora si registrava una mortalità intorno al 35-38 per cento, ora è del 20 per cento. «Questi 100 ricoverati dell’ultima ondata sono quasi tutti no vax», rimarca Lorini. «La differenza tra vivere e morire, tra secondo e primo anno di pandemia l’hanno fatta i vaccini: se un vaccinato prende il Covid, male che vada finisce in ospedale, quasi mai da me in rianimazione. E se succede sopravvive».

 

La responsabilità dei no vax • Lei ha sempre sostenuto che se una persona decide di non vaccinarsi e si ammala, per coerenza poi non dovrebbe andare in ospedale. La pensa ancora così dopo aver curato in questi ultimi mesi soprattutto non vaccinati? «Certo. Non è corretto che la scelta dei no vax impegni risorse del sistema sanitario a scapito di altri. Per curare i positivi in rianimazione abbiamo tolto tanto agli altri malati, e non possiamo più permettercelo, perché dopo due anni in queste condizioni la sanità rischia di andare in burn out. Quando il Covid ci dava tregua, tra un’ondata e l’altra, noi medici non ci siamo mai fermati perché dovevamo recuperare tutti gli interventi rinviati».

A Sesto San Giovanni (Milano), un dipendente prepara l'ossigeno presso lo stabilimento di Vivisol, la società del Gruppo Sol specializzata nell'assistenza sanitaria domiciliare (Alessandro Gandolfi)

Medicina di guerra • Nell’ultimo anno è capitato di avere le terapie intensive piene e dover scegliere chi intubare? «Non c’è mai stata un’indicazione per età. Ci sono degli score, che fissano una stratificazione del rischio e mettono insieme dei punteggi, tra cui l’età, per capire chi ha più probabilità di sopravvivenza con il nostro intervento. Questo esiste da sempre in medicina, ma il Covid l’ha un po’ sdoganato».

 

La battaglia continua • Sembra che il peggio sia alle spalle, il 31 marzo scade lo stato di emergenza, la curva dei contagi è piegata e anche i decessi sono finalmente in calo. Dopo due anni di pandemia si inizia a parlare di endemia e di convivenza con il Covid. «Stiamo vincendo la battaglia col virus – sostiene il medico – ma l’errore più grosso sarebbe dire che è finita. Se non interviene una variante “strana” abbiamo altissime probabilità di esserne fuori. Tutte le pandemie nella storia del mondo sono durate due anni e come erano venute se ne sono andate. Proprio a marzo scadono questi due anni e stiamo già sperimentando la pandemia in endemia, come si vede dai numeri. Potranno esserci ancora pazienti Covid gravi, ma saranno la minoranza. Poi abbiamo il grande vantaggio di poter fare in autunno un vaccino che colpisca la variante che sei mesi prima circolava nei Paesi invernali».

 

Vaccini stagionali • Dunque lei è d’accordo con chi prevede una quarta e una quinta dose, o magari una vaccinazione stagionale come per l’influenza. «Dico che sarebbe logico pensare a proteggerci non sapendo cosa succederà a dicembre. Piuttosto che rincorrere il virus stavolta potremmo anticiparlo. Un Paese intelligente a ottobre rende disponibile la campagna vaccinale, come si fa per l’antinfluenzale, ma ricordando che questo virus ha fatto più morti dell’influenza. Solo così – conclude Lorini – potremo essere certi che stavolta andrà (davvero) tutto bene».