di Marco Santangelo
Lucio Dalla «nonostante la fama non ha mai perso l’umiltà». È questa la prima cosa che ogni cittadino di Bologna ricorda di Lucio. E lui era così: un artista di fama nazionale e internazionale che passeggiava liberamente per tutto il centro storico senza trascurare le abitudini di sempre. Gli piacevano il cibo e la compagnia. D’altronde i bar, le osterie e le piazze erano i suoi luoghi prediletti.
Paolo Cesari, titolare dell’omonimo ristorante, era uno dei suoi più cari amici. Dopo dieci anni fatica a ricordare Lucio, prova a trattenere le lacrime ma è inutile. «Non potrei mai limitarmi a raccontare solo un ricordo. Lucio veniva da noi quando ancora non avevamo nemmeno il minimo sentore della sua grandezza artistica», racconta. Non è facile scavare nella memoria e Cesari si emoziona mentre parla di Dalla proprio dal suo tavolo preferito: «Una grandezza d’animo straordinaria, era in grado di trasmettere un amore viscerale». Cosa gli ha lasciato Lucio? «Che bisogna voler bene al prossimo e lui l’ha dimostrato con tutti noi».
Al Gran Bar di via D’Azeglio, invece, Lucio beveva quasi tutti i giorni (quando poteva) un “puc-cappucc”. «Era un tipo di cappuccino che aveva inventato lui – spiega il titolare Giancarlo Campolmi –, sarebbe un cappuccino con un caffè basso e poco latte, freddo in estate e caldo in inverno. Poi quando era di buon umore lo canticchiava di continuo». Campolmi non lo ricorda come un cliente, ma «come un amico, come uno di noi».
Anche Massimo Montanari, oggi alla guida del ristorante Cesarina, parla di Lucio come una persona «altruista e pronta a dedicare a chiunque, sempre e comunque, un po’ del suo tempo. Infatti anche musicalmente era benvoluto da tutti. Perché a Lucio piaceva iniziare i giovani talenti, li aiutava a emergere».
E poi c’è chi conserva con cura l’ultimo personale ricordo che ha di Lucio. Rocco Colotti, del ristorante C’era una volta, è uno di questi: «Eccolo qui, esattamente a questo tavolo, il sabato prima della sua scomparsa, Lucio era a cena con Marco Alemanno. A fine serata si è alzato e ha fatto il giro della sala per salutare tutti i clienti e i lavoratori presenti con una semplicità unica. Adoravo il suo sentirsi una persona comune nonostante tutta la fama che aveva sulle spalle, ma era proprio questa la specialità di Lucio, la sua umanità che l’ha reso un’icona».
di Marco Santangelo
«Come dimenticarlo? Stavo mangiando all’osteria Cesari quando Lucio si avvicinò al mio tavolo, mi guardò negli occhi e mi disse che io avrei dovuto fargli da manager». Da quel giorno la vita di Tobia Righi, lo storico manager del cantautore, è cambiata completamente. Accettò quel ruolo senza alcuna esperienza e, inizialmente, senza intascare un euro: «Mi disse, all’epoca, che non aveva una lira… Ma io accettai lo stesso».
Di Lucio, Righi ricorda le infinite litigate allo stadio ma un episodio indelebile nella sua memoria è legato alla prima serata di lavoro nei panni del manager di uno degli più importanti artisti italiani: «Andammo a Gallipoli e quando faccio per tirare le somme mi sento dire che non avevano i soldi per pagarmi. Cosa ho fatto? Gli ho sfilato il Rolex e gli ho detto che il giorno dopo sarei stato all’Hotel Plaza di Taranto e che gli avrei restituito l’orologio solo se mi avessero portato i soldi». Com’è andata a finire? «Che nessuno ha mai pagato l’esibizione di Lucio e quell’orologio restò proprio a lui, come riscatto».
E di aneddoti Righi ne potrebbe raccontare uno dopo l’altro. Seduto nel salotto dello studio in casa Dalla si guarda intorno, il suo sguardo si posa su oggetti e poltrone che gli rinnovano i ricordi di un’amicizia (e di un lavoro) tanto passato quanto presente: «In questo casa io praticamente ci ho vissuto, ho lavorato con Lucio per 46 anni e tornare qui è per me molto triste». E se potesse mandare un messaggio a Lucio? «Beh, gli dico di venir via dal cielo e tornare sulla terra perché la mancanza che sento di lui è fortissima, voglio che torni qui a litigare con me per il calcio e voglio ricevere ancora le sue telefonate notturne». Righi alza gli occhi e le mani al cielo: «Ciao ragno, io ti aspetto qui».
di Marco Santangelo
Anno 1998. Dalla e Morandi cantano per la prima volta “Vita” e salta fuori una delle dichiarazioni d’amore più belle di sempre. Ma non c’è solo amore nel brano. Dietro quelle note, infatti, si nasconde l’amicizia tra Lucio Dalla e il compositore Mario Lavezzi. «Avevo scritto quel pezzo assieme a Mogol, era stato lui a proporlo a Dalla. Quando Lucio ha accettato per l’evento con Morandi mi sono sentito come se con un dito fossi stato in grado di toccare il cielo».
Prima ancora della musica Lavezzi aveva avuto a che fare con Dalla grazie all’associazione Autori che si batteva per la difesa dei diritti degli artisti musicali: «Stimavo Dalla in maniera incondizionata, si batteva affinché ogni cantante o musicista fosse protetto e salvaguardato. Non a caso le riunioni dell’associazione si svolgevano proprio a casa sua».
Ma c’è anche un altro brano che lega Lavezzi a Dalla: “Giorni leggeri”. «In quell’occasione chiesi a Lucio se volesse farmi un regalo onorandomi di mettere mano e mente al pezzo. Ricordo che in quei giorni era incasinatissimo, ma appena trovò del tempo libero mi invitò alla Fonoprint. Fu incredibile, in quindici minuti buttò giù una strofa e… Buona la prima».
Di Dalla oggi Lavezzi ricorda il suo estro, la sua genialità. Ma, soprattutto, sottolinea come da Lucio non si smetta mai di imparare. «L’altro giorno mentre guidavo hanno trasmesso un suo pezzo alla radio e nonostante tutta la mia esperienza ho notato dei particolari che ancora non avevo afferrato, ovvero quell’interpretazione e quella creatività tipica del genio che mi fa capire che ho ancora molto da imparare da Lucio».
di Marco Santangelo
«Cosa dovrei dire di Lucio? Era impenetrabile. E di lui mi piace parlare al presente, così penso che non se ne sia mai andato». Il giornalista e poliedrico artista Giorgio Comaschi, quando parla di Dalla, lo fa con nostalgia. Dosa attentamente le parole, prova a non lasciarsi sopraffare dalla nostalgia, ma l’impresa è ardua «perché è impossibile descrivere una personalità così inafferrabile».
La sua mente viaggia nel tempo, riavvolge i decenni fino alla fine degli anni ’70 quando una banale circostanza diede inizio all’amicizia con Lucio. «Lavoravo per il giornale sportivo Stadio e un giorno Lucio mi telefona per chiedermi se i suoi ragazzi, gli attuali componenti degli Stadio, potessero usare il logo del giornale per la band. Allora lo misi in contatto con il mio direttore e da lì sono nati, a tutti gli effetti, gli Stadio».
Da quel momento in poi Comaschi e Dalla cominciarono a frequentarsi. Li univa la passione per il calcio, il tifo per il Bologna, ma «soprattutto il nostro appuntamento del mese in cui aggiornavamo la nostra classifica dei primi cinque imbecilli di Bologna». D’altronde Comaschi conosceva i due lati «contraddittori» del cantautore: «Da una parte Lucio era genialità, era un visionario con una capacità unica di interpretare la realtà. Un genio, insomma». E l’altro Lucio? «Era il più grande ballista della storia», ricorda Comaschi con un sorriso malinconico, poi sogghigna e aggiunge: «Si divertiva a raccontare le bugie e penso che oggi si divertirebbe se gli dicessi che ogni tanto è stato un po’ str… Ma era così, mille difetti e mille pregi».
Sono passati dieci anni dalla sua scomparsa e Comaschi, oggi, ha deciso di omaggiare il suo vecchio amico con il libro “A Bologna con Lucio Dalla”. «Un libro in cui descrivo la città e i luoghi più significativi attraverso gli occhi di Dalla, comprese osterie e ristoranti che lui frequentava».