di Valerio Baroncini
I ragazzi de Il Volo cantano “Caruso”, attorno al grande piano suonato da Teo Ciavarella. Il piano, nella sala dell’Esibizionista – in virtù della statua che troneggia fra i divani di Casa Dalla – è proprio quello che Lucio suonava. Il grande Steinway a coda marrone: «Lucio Dalla è la storia, la nostra massima influenza artistica e la nostra infanzia – dice Gianluca Ginoble –. Per “nostra” intendo di tutti noi, non solo del Volo: Lucio ha fatto la storia della musica italiana portando brani che hanno emozionato intere generazioni come “Caruso”».
Ignazio Boschetto racconta come la prima canzone che «abbiamo conosciuto sia stata proprio “Caruso”. Io personalmente poi mi sono innamorato di “Ayrton”, delle “Rondini”, di “La sera dei miracoli”, di “Attenti al lupo”: c’è una musica per ogni stato d’animo e questo è tipico di Lucio Dalla».
Per Piero Barone quello a Casa Dalla con il Carlino «è stato un giorno speciale per noi. Cantiamo “Caruso” ovunque, in tutti i concerti, e per “Caruso” c’è una introduzione particolare. La nostra versione è orchestrale con tantissimi elementi, ma inizia con gli accordi di una chitarra e diciamo sempre al pubblico, ovunque siamo, “Riconoscerete questa canzone dalle prime note”. È così perché è un brano universale. Cantarla a Casa Dalla grazie alla Fondazione Lucio Dalla per noi è un grande onore».
L’onore è lo stesso che prova il pianista Teo Ciavarella: «Lucio è stato un maestro e un amico, ho avuto la fortuna di poter collaborare con lui. Suonare la musica di Dalla per me che ho avuto l’opportunità di conoscerlo è un’emozione straordinaria, qui sono state composte canzoni meravigliose. Musica immortale che resterà per sempre».
di Valerio Baroncini
È facilissimo identificare Casa Dalla. Il terrazzino iconico dello studio, su piazza de’ Celestini, guarda la chiesetta dove Lucio fu battezzato. All’angolo via D’Azeglio pedonale dove, fra i negozi, compare il citofono con il campanello “Comm. Domenico Sputo”, alter ego dell’artista. Poi, passato il portone e il cortile, si salgono le scale e si entra in un museo che museo non è. La casa non è stata modificata, o modificata pochissimo, da quando Lucio l’abitava.
È un accumulo di vita, vite, ricordi, oggetti, opere d’arte, musica ovviamente. Un caleidoscopio di bolognesità e genio: dai presepi napoletani (uno è all’ingresso) a simboli laici, in un passaggio continuo di sacro e dissacrante che porta alla mente quell’opera di Stefano Cantaroni esposta dieci anni fa nella camera ardente dell’artista, l’Ultima cena. Poi un inginocchiatoio, poster di concerti, dischi, foto, targhe, microfoni e opere d’arte. Da Luigi Ghirri a Luigi Ontani e Michelangelo Pistoletto. E, infine, la “stanza dello scemo”, quella dove giocare e vedere film. Dvd, trenini, giocattoli. Dalla e il suo mondo.
Per Andrea Faccani, cugino e presidente della Fondazione fondata nel 2014 per tenere viva la memoria e il ricordo di Lucio, «l’obiettivo di Casa Dalla è tenere aperto il mondo di Lucio». Il 4 marzo una mostra al Museo civico archeologico di Bologna racconterà il Lucio privato «per raccontarne la vera storia e cancellare le leggende metropolitane». Il 4 marzo 2012, durante il funerale di Lucio Dalla, a Faccani tornò alla memoria il primo concerto visto di Lucio: «Usciti dal concerto, mi prese il primo pallone per giocare calcio. E in dialetto mi disse “Zuga a balon, non far mica il musicista!” Lucio mi ha fatto da secondo padre, era protettivo, mi faceva leggere una marea di libri. Mi ha insegnato a stare al mondo e a stare in mezzo alla gente».
di Andrea Spinelli
Tremilaseicentocinquantadue giorni senza Lucio. Dieci anni passano in fretta sul calendario, un po’ meno fra i ricordi. Soprattutto se a ravvivarli ci sono i suoni e le visioni che hanno toccato l’anima di tre generazioni. Dalla non s’è mai accomiatato per davvero, perché nessuno l’ha lasciato andare. Basta, infatti, il documentario di Pietro Marcello “Per Lucio”, presentato lo scorso anno a Berlino, per capire quanto la tensione verso il futuro delle sue canzoni, l’equilibrato mix tra timori e speranze dei testi, riesca ancora ad incidere la scorza del pop per lasciar affiorare ad ogni ascolto un Dalla in più di quanti già non ne conoscessi.
“Musicista, poeta, maestro di vita”, come c’è scritto sulla tomba al cimitero della Certosa di Bologna, Lucio con quel sorriso da saltimbanco stralunato ha traversato l’esistenza a passo di bolero, cavalcando mitologie nazionalpopolari, perdendosi nei labirinti della vita, alzando lo sguardo verso l’infinito, lasciando germinare sul seme dell’irregolarità alcune delle sue canzoni più popolari e amate per soffiare via (parole sue) «il sottile strato di nebbia piovosa che la malinconia posa sulle coscienze».
In uno dei suoi slanci più visionari, anticipando di oltre un trentennio quel fatidico primo di marzo sul Lago di Lemano, ha addirittura impigliato nei versi di “Cara” le parole che gli avrebbero fatto da epitaffio. “Lontano si ferma un treno / Ma che bella mattina, il cielo è sereno / Buonanotte, anima mia / Adesso spengo la luce e così sia”. Quando il docufilm di Marcello diventa “For Lucio” per sbarcare in America sulla stilosa piattaforma Mubi e il New York Times accompagna l’evento con un intenso focus sulla vita e sull’opera del suo protagonista significa che Dalla è davvero parte della cultura contemporanea.
«Le sue canzoni, così misteriose, non sono diventate dei “classici” col tempo… sono già nate così» assicura un acuto epigono come Samuele Bersani. «Da “Com’è profondo il mare” in poi, Lucio ha prodotto brani con dentro una tale quantità di vita capace di andare oltre gli anni e le stagioni». Perfino “Oh vita!” di Jovanotti cita “Futura”, ma probabilmente è un progetto come “Bella Lucio!”, in cui il sacro repertorio scivola tra i versi di Clementino come di Emis Killa, di Rocco Hunt come di Ensi, Ghemon, Moreno, Mondo Marcio o J-Ax (definito da Dalla stesso «il più grande “divisore di parole” dopo me») ad evidenziare come i lampi di “Che cos’è Bonetti” o “La borsa valori” dalle cantine del jazz siano arrivati ad abbagliare i palchi del rap.
Oltre al gusto dell’improvvisazione, Dalla del jazzista aveva pure il senso dell’amicizia. Quella che lo legava a compagni di strada scomparsi in questi anni come Roberto Roversi, Gianfranco Baldazzi, Michele Mondella, Bibi Ballandi alimentando il sospetto che, lì dove si trova, stia ricostituendo la squadra con cui ha giocato per una vita. «A 15 anni mi sembrava di volare» ricordava il cantante bolognese in un brano del 2007 sull’adolescenza. “Dicevo a tutti ‘io vivrò due dita sotto il cielo’ / a 15 anni questo era il mio pensiero”. È andata proprio così. La vita gli ha regalato tanto, ma lui l’ha resa migliore a tutti.
di Andrea Spinelli
Stop. Macchina indietro. «L’ultima volta ho visto Lucio è stata al Festival di Sanremo, la sera della finale» racconta Samuele Bersani, fermando una memoria ondulata dal tempo. «Stavo cantando “Un pallone” e lui era giù in platea a guardarmi nell’attesa di dirigere l’orchestra per Pierdavide Carone che doveva esibirsi dopo di me. In quel momento di estasi cercavo sui volti della gente conferma di quanto stessi vivendo, lui capì e da lontano mi fece il segno “ok” con la mano dandomi ancora più energia di quanta non ne stessi già mettendo nella mia interpretazione. Non ci sarebbe stato un “dopo”, ma il “prima” lo conservo in un video girato nella green room sotto al palco mentre ci preparavamo ad andare in scena».
Che settimana fu?
«Stando nello stesso albergo, capitò di scambiarci quattro chiacchiere e lo trovai un po’ più stanco del solito. Lucio, però, era di quelli incapaci d’ammettere un momento no, di quelli che se gli chiedi “come stai” ti rispondono “bene… perché?”. Difficile immaginare quel che sarebbe accaduto».
Della primissima esperienza nel tour di “Cambio” cosa ricorda?
«La mia totale mancanza d’abitudine ad un pubblico numeroso come quello a cui Dalla mi dava in pasto ogni sera facendomi cantare “Il mostro” dopo aver eseguito un classico del suo repertorio come “Caruso”. Avevo vent’anni e, grazie anche a quel ricordo, “Il mostro” per me rimane una canzone commovente come quando l’ho scritta. Quel tour mi offrì il primo esempio dell’attitudine che aveva Lucio a mettersi completamente a disposizione degli altri quando vedeva in loro una luce, un lampo, capaci di sorprenderlo».
È successo spesso.
«In vent’anni di amicizia ho avuto modo di apprezzare in prima persona la formidabile capacità che aveva di cogliere il talento delle persone. Che si trattasse di un medico, diventato poi il suo medico di fiducia, o di un avvocato. Eugenio D’Andrea lo contattò perché avrebbe voluto diventare cantautore, ma lui gli rispose: a me serve un legale, non un cantante, diventerai un grande avvocato. Ed effettivamente D’Andrea è diventato uno dei migliori avvocati del mondo dello spettacolo. Con la sua sensibilità, Dalla non azzeccava solo i destini delle persone, ma pure i nomi dei loro parenti in modo quasi infallibile».
Uomo innamorato della vita?
«Assolutamente sì, mosso da una curiosità famelica per l’arte come per la gente. Come contraltare a questa straordinaria generosità umana, c’era un lato del suo essere che poteva anche ferire».
Effettivamente, lei in un’intervista ha detto: «non era spietato, ma poteva diventarlo in un attimo». Perché?
«Lucio aveva un carattere particolare, curioso fino all’invadenza. Ma all’occorrenza riusciva anche a toccare con le parole corde particolari. Con un aggettivo un po’ antico, lo definirei “irriverente”. Un po’ come un analista che ti mette a nudo l’anima. Ricordo che nel 2000 mi fratturai il piatto tibiale e lui venne per tre giorni di seguito a trovarmi all’ospedale in motorino».
Senza pensarci, dica un suo verso che la tocca nel profondo.
«C’è una frase di “Meri Luis” che ogni volta mi fa venire la pelle d’oca, perché pena di vita. Quella che dice: “Meri Luis finalmente ha deciso che l’amore è bello, ha abbassato gli occhi e si è lasciata andare, ha benedetto il cielo come fosse un fratello, per le sue belle tette e per l’amico che le vuole toccare”».