di Michele Brambilla
Il ciclone di Mani Pulite, che cambiò l’Italia per sempre, arrivò imprevisto – come quasi tutti i fatti che invertono il corso della storia – la sera del 17 febbraio del 1992, trent’anni fa. Era un lunedì. Un giorno moscio, moscissimo per le redazioni della cronaca milanese, fino alle nove di sera, quando cominciò a circolare la notizia: «Hanno arrestato Mario Chiesa».
Chiesa arrestato? Ma va’ là. In molti pensammo a uno scherzo. Mario Chiesa era il presidente del Pio Istituto Albergo Trivulzio, noto ai milanesi come “la Baggina”, la casa per anziani più famosa della città e forse d’Italia. La Baggina era il ricettacolo, da sempre, di donazioni miliardarie (si misurava tutto in lire, allora), e quindi un patrimonio immobiliare immenso, e quindi possibilità di dispensare affitti agli amici degli amici, e poi appalti, assunzioni, e così via.
Mario Chiesa era una delle persone più potenti di Milano. Socialista. Perché il potere, in quegli anni, era del Psi di Bettino Craxi. I socialisti avevano più o meno il dieci per cento dei voti, ma con quelli governavano quasi ovunque: qua con i democristiani, là con i comunisti. A Milano il sistema era il Psi, dalla fine della guerra, quasi ininterrottamente. Arrestato Chiesa? Impossibile. Da tempo si mormorava sugli affari dei socialisti, su un giro di tangenti, clientele, corruzione diffusa. La Procura aveva provato, qualche volta, a vedere che cosa c’era di vero, in quelle voci: ma senza mai trovare nulla.
Quel 17 febbraio di trent’anni fa, però, il pm che indagava sulla corruzione era Antonio Di Pietro, un ex poliziotto magari meno forbito di suoi tanti colleghi, ma investigatore formidabile come nessun altro. Sì, Chiesa era un intoccabile: ma Di Pietro lo incastrò mandando nel suo ufficio un piccolo imprenditore di Monza, Luca Magni, imbottito di microspie e di banconote segnate: sette milioni di lire, la prima tranche di una tangente richiesta per l’appalto delle pulizie alla Baggina. Chiesa fu ammanettato e Di Pietro, la mattina dopo, disse ai giornalisti: «L’abbiamo beccato con le mani nella marmellata». Questa volta non c’era avvocato né cavillo che potesse tenere.
Eppure in pochi capirono che stava per venire giù tutto. Per due mesi Mario Chiesa rimase l’unico indagato nell’inchiesta chiamata Mani Pulite. Fu soprattutto la politica a non capire. Ma quando mai un ex poliziotto è più forte della politica? E invece.
Invece la storia procede anche per strappi improvvisi. Anche l’Impero austroungarico doveva essere eterno. Anche il Terzo Reich doveva durare mille anni. Anche l’Unione Sovietica doveva essere il sole dell’avvenire. Figuriamoci la Prima Repubblica con il suo pentapartito: Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli. E con la sua opposizione, il Pci.
In aprile le elezioni politiche furono il segnale che un mondo stava finendo. Crollarono i vecchi partiti e spiccò il volo la Lega di Bossi. Il vento del Nord annunciava il ciclone. A Roma non capirono. «Questo Di Pietro finirà a Gallarate a fare il vigile urbano», dicevano nel Palazzo. Ma in un altro Palazzo, quello milanese della giustizia, davanti all’ufficio di Di Pietro si formavano, nel pomeriggio, file di imprenditori stanchi di pagare il pizzo alla politica. Raccontavano di tangenti per ogni lavoro. Facevano nomi e cognomi. Di Pietro inventò un’espressione pittoresca, “dazione ambientale”, per definire un sistema nel quale il pagamento di una mazzetta era diventato la normalità. Milano venne ribattezzata Tangentopoli.
E arrivarono gli arresti, e gli avvisi di garanzia ai sindaci socialisti della città, Tognoli e Pillitteri, e poi quelli ai parlamentari. A Di Pietro, inizialmente solo, vennero affiancati altri pm: Colombo, Davigo e naturalmente il capo dell’ufficio, Borrelli. Nacque il famoso pool dei magistrati anti-corruzione.
Nacque purtroppo un altro pool: quello dei cronisti giudiziari. Fu l’inizio della fase patologica di Mani Pulite. I direttori di giornale sbagliarono a lasciare tutto in mano ai cronisti giudiziari. Sbagliarono perché non videro, o non vollero vedere, che le cronache erano diventate tutte uguali, ciascun giornale fotocopia dell’altro e sempre a sostegno delle Procure, non solo quella di Milano ma tutte le Procure, perché le inchieste si moltiplicarono in tutta Italia, spesso con pm pessimi imitatori di Di Pietro. Sbagliarono perché i cronisti giudiziari (e lo scrive uno che all’epoca faceva il cronista giudiziario e seguiva questa inchiesta) sono, sia pure in buonissima fede, troppo legati alle loro fonti, che sono i pm. I direttori sbagliarono perché non capirono che quello che stava succedendo non era solo un grande processo penale, ma un cataclisma politico, culturale, umano.
Per le strade si facevano le fiaccolate, sui muri si scriveva «Di Pietro salvaci», all’hotel Raphael di Roma dove andava Craxi si tiravano le monetine. Si rinnovava tristemente la furia iconoclasta che accompagna, cieca, ogni rivoluzione; si ripeteva, macabro, il triste rito delle tricoteuses.
Fu giusto, e provvidenziale, mettere fine al sistema delle tangenti e a una corruzione della politica che era diventata scandalosa impunità. Ma non fu giusto né tantomeno provvidenziale – anzi fu esiziale – sostituire alla corruzione dei soldi quella degli animi. Si volle dividere il popolo in buoni e cattivi, si volle far passare il concetto che la politica è sempre marcia e che i partiti sono un cancro, si volle consegnare alle Procure il destino del Paese.
Non si distingueva più nulla: tra gli arricchimenti personali e il finanziamento della politica. Nacque in quel tempo l’orribile abitudine di costringere alle dimissioni chiunque riceva un semplice avviso di garanzia. Nacque in quel tempo l’ancor più orribile abitudine di autodefinirsi “onesti”, e di dare sempre la colpa agli altri. Nacquero in quel tempo l’antipolitica, il rancore, l’odio sociale, il complottismo. I direttori di giornali sbagliarono, perché non capirono che si finiva ancora un volta nel nostro vizio forse peggiore: il conformismo.
Sono passati trent’anni. Che cosa è rimasto? La politica non si è mai più davvero ripresa: per cercare un capo dello Stato bisogna sempre andare a pescare nella Prima Repubblica. La disaffezione degli italiani alla politica è aumentata. La fiducia nella magistratura, allora plebiscitaria, si è almeno dimezzata. La giustizia, da risorsa, è diventata un problema, forse il problema.
La chiudo con le parole che proprio Antonio Di Pietro disse a questo nostro giornale, forse nella sua ultima intervista, il 30 marzo dell’anno scorso: «C’è stata una degenerazione del sistema inquirente. Quando facevo il pm io, se si trovava un reato si cercava il colpevole. Adesso spesso prima si cerca il colpevole, poi ci si dà da fare per trovare un reato da contestargli. Per capirci meglio: si è passati dal magistrato becchino al magistrato poliziotto. Io trovavo il morto e poi cercavo l’assassino; adesso trovano l’assassino e poi cercano un morto».
di Giancarlo Ricci
Il 17 febbraio di trent’anni fa era un lunedì come un altro. Almeno fino alle ore 17.30 circa, quando avvenne un episodio che avrebbe dato il via ad un intero periodo che, nel bene e nel male, ha fatto la storia del nostro Paese. Con l’arresto di Mario Chiesa, allora presidente del Pio Albergo Trivulzio, cominciava infatti l’inchiesta giudiziaria più famosa subito definita Tangentopoli o Mani Pulite.
Chiesa venne arrestato direttamente nel suo ufficio milanese subito dopo aver riscosso una mazzetta da sette milioni di lire consegnata dall’imprenditore Luca Magni. L’operazione fu organizzata dall’allora sconosciuto sostituto procuratore Antonio Di Pietro, che poi divenne il simbolo dell’inchiesta, con la collaborazione del capitano dei Carabinieri Roberto Zuliani.
In realtà l’inchiesta avrebbe raggiunto il suo apice solo un anno dopo, ma l’arresto di Mario Chiesa (che fu accusato di concussione) viene identificato come il primo atto ufficiale di una delle inchieste giudiziarie sul finanziamento illecito ai partiti che maggiormente scosse il panorama politico e mediatico italiano.
Mario Chiesa non confessa immediatamente, anzi all’inizio non parla proprio e non risponde alle domande dei magistrati. Durante un interrogatorio a cui venne sottoposto in seguito, però, inizia a parlare, a fare nomi e a rivelare l’esistenza di un complesso sistema di tangenti che coinvolgeva ogni appalto in concessione, e che andava a coinvolgere qualsiasi partito politico, nessuno escluso.
Tra avvisi di garanzia, arresti, suicidi e rinvii a giudizio, l’inchiesta Mani Pulite portò alla luce un sistema corruttivo complesso e molto ben organizzato e contribuì a destabilizzare l’ordine politico ed economico dell’inizio degli anni ‘90, contribuendo a determinare la fine della cosiddetta Prima Repubblica.
Mani Pulite scavò a fondo nei rapporti tra politica e imprenditoria italiana, arrivando a mettere sotto inchiesta, nei vari filoni giudiziari, svariate migliaia di persone e coinvolgendo colossi dell’imprenditoria italiana come Olivetti, Eni, Fiat, Montedison e Enel e, tra i tanti, i vertici del Partito Socialista Italiano e della Democrazia Cristiana.
Nel corso del solo 1992, i politici raggiunti da avvisi di garanzia furono tantissimi. Nel dicembre di quell’anno, anche l’allora segretario del Psi ed ex presidente del Consiglio Bettino Craxi fu inquisito e cominciò una vera e propria battaglia contro i magistrati titolari dell’inchiesta, accusandoli di condurre «un gioco al massacro in piena regola, per perseguire un preciso disegno politico».
Craxi, che arrivò persino a proporre l’istituzione di una commissione d’inchiesta sulla Procura di Milano, dichiarò poco dopo l’arresto di Mario Chiesa e ben prima di ricevere il suo primo avviso di garanzia, di essere una delle vittime dell’inchiesta: «Mi preoccupo di creare le condizioni perché il Paese abbia un Governo che affronti gli anni difficili che abbiamo davanti e mi trovo un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito che a Milano in cinquant’anni, nell’amministrazione del Comune di Milano, nell’amministrazione degli enti cittadini – non in cinque anni, in cinquanta – non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi commessi contro la pubblica amministrazione».
Con l’inizio del 1993, l’inchiesta Mani Pulite divenne sempre più corposa e nel gennaio dello stesso anno centinaia di avvisi di garanzia furono trasmessi ad altrettanti esponenti politici del Partito Socialista Italiano e a numerosi imprenditori italiani. Craxi urlò al golpe, ma pochi giorni dopo fu costretto a lasciare la segreteria del Psi. Il suo esempio fu seguito anche da Ciriaco De Mita della Democrazia Cristiana, da Giorgio La Malfa del Partito Repubblicano e da Renato Altissimo del Partito Liberale. In pochissimo tempo, i più importanti partiti italiani si trovano a dover cambiare dirigenza, sostituire leader e segretari, a sciogliere partiti, nel caso della DC, e ad affrontare numerosi interrogatori e procedimenti giudiziari nonché l’inarrestabile calo di consenso politico.
L’inchiesta di Mani Pulite terminò ufficialmente nel 1994, con le storiche dimissioni di Antonio Di Pietro dalla magistratura in seguito a quella che lui reputò essere una trappola tesa per screditarlo. Poche settimane prima, nel novembre del 1994, l’assicuratore Giancarlo Gorrini denunciò il Pm, sostenendo di essere stato ricattato e di aver subito pressioni e incessanti richieste di favori da Di Pietro. L’allora ministro della Giustizia Alfredo Biondi avviò un’inchiesta sul procuratore di Milano e poche settimane dopo, Antonio Di Pietro si dimise scrivendo una lettera molto sentita nella quale annunciava di «lasciare l’ordine giudiziario, senza alcuna polemica, in punta di piedi, quale ultimo “spirito di servizio”, con la morte nel cuore e senza alcuna prospettiva per il mio futuro, ma con la speranza che il mio gesto possa in qualche modo contribuire a ristabilire serenità».
di Giancarlo Ricci
Il pool di Mani Pulite, coordinato dal procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli, era formato da: Antonio Di Pietro, Gerardo D’Ambrosio, Ilda Boccassini, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Armando Spataro, Francesco Greco e Tiziana Parenti.
Il capo del Pool è morto il 20 luglio 2019 ad 89 anni dopo aver indossato, per ben 47 anni, la toga di magistrato. Era il 2002, pochi mesi prima della pensione, quando il “capo delle toghe rosse”, così lo chiamavano i detrattori, è intervenuto come procuratore generale di Milano dopo aver guidato il pool di Mani pulite che ha segnato la storia d’Italia. Ha sempre e strenuamente difeso l’indipendenza dei magistrati, in anni in cui il rapporto con la politica era piuttosto teso. Fra le dichiarazioni celebri dell’ex magistrato c’è quella rilasciata il 20 dicembre 1993, prima delle elezioni che avrebbero portato Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi, una sorta di monito ai partiti: «Chi sa di avere scheletri nell’armadio, vergogne del passato, apra l’armadio e si tiri da parte. Tiratevi da parte prima che arriviamo noi».
Forse il volto più popolare del Pool aveva appeso la toga “prematuramente” con le dimissioni date nel 1994. In seguito, si è dedicato alla politica col suo movimento “Italia dei valori” fino a diventare, nel 2006, ministro dei Lavori Pubblici nel secondo governo guidato da Romano Prodi. Un’esperienza durata solo sei mesi perché si dimise dopo avere ricevuto un avviso di garanzia nell’ambito di un’indagine da cui poi uscì scagionato.
Si ripresenterà in un’aula del Palazzo di Giustizia di Milano a settembre 2019, nelle vesti di avvocato di alcuni giornalisti del ‘Sole 24 Ore’ che chiedevano di costituirsi parte civile nell’udienza preliminare con al centro presunte irregolarità nei bilanci del quotidiano economico. Attualmente Di Pietro vive nel suo paese, Montenero di Bisaccia, in provincia di Campobasso, a pochi chilometri dal confine con l’Abruzzo. Di Pietro, che oggi ha 72 anni svolge regolarmente la sua professione di avvocato.
Inoltre, Di Pietro viene spesso visto in sella al suo trattore, mentre coltiva la terra proprio lì, a Montenero di Bisaccia. Un ritorno alle origini (suo padre svolgeva questo mestiere) che l’ha spinto anche ad utilizzare le sue conoscenze informatiche per lanciare una rubrica sulla piattaforma multimediale Pop Economy, dove vengono affrontate svariate questioni che fanno riferimento all’agricoltura 4.0.
Morto il 30 marzo del 2014 all’età di 84 anni, fu uno dei maggiori protagonisti delle vicende giudiziarie italiane ed anche una persona, come in molti lo ricordano, dalle straordinarie “qualità professionali ed umane”. Qualità che lo hanno accompagnato nella sua lunga carriera di magistrato, di rappresentante delle istituzioni e di uomo politico.
Il suo nome è legato non solo alla stagione di ‘Mani Pulite’, ma anche ad altre vicende come la strage di piazza Fontana, la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli e il crac del Banco Ambrosiano. Nel 2002 lasciò la toga e andò in pensione ma il suo impegno per la giustizia proseguì: per due legislature è stato senatore prima per i Ds poi per il Partito Democratico. Ha combattuto sempre con quel grande senso dello Stato e delle istituzioni che lo ha guidato per tutta la vita.
Quando si nomina Ilda Boccassini, oltre all’inchiesta Mani Pulite, viene subito in mente anche Silvio Berlusconi. Sì, perché l’ex magistrato napoletano è stata individuata spesso – anche dallo stesso Cavaliere – come una “nemica” dell’ex premier.
L’ultimo “scontro” riguarda il caso Ruby, ed in particolare le pressioni di Berlusconi alla Questura di Milano per ottenere il rilascio della giovane donna originaria del Marocco e al pagamento in cambio di prestazioni sessuali quando era ancora minorenne.
Ma l’astio tra Ilda Boccassini e Silvio Berlusconi comincia molti anni prima. L’ex magistrato fece infatti parte del celebre pool di Mani Pulite, nel 1994, subentrando ad Antonio Di Pietro (dimessosi dalla magistratura) e collaborando con grandi nomi come Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo, Francesco Greco e Armando Spataro. La Boccassini seguì in particolare le inchieste giudiziarie riguardanti Cesare Previti e per l’appunto Silvio Berlusconi.
Cessa l’incarico di magistrato nell’agosto del 2015. divenuto famoso per aver condotto o contribuito a inchieste celebri quali la scoperta della Loggia P2, il delitto Giorgio Ambrosoli, l’inchiesta Mani Pulite e i processi Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme.
Attualmente è membro del comitato etico della Fondazione Umberto Veronesi e dell’Advisory Board di Transparency International Italia. È volontario ATS presso il III raggio della Casa Circondariale San Vittore di Milano. È Coordinatore del Comitato per la legalità, la trasparenza e l’efficienza della pubblica amministrazione del Comune di Milano. È presidente o membro di alcuni Organismi di vigilanza. È presidente dell’ente pubblico Cassa delle Ammende. È testimonial dell’Associazione Ancora ONLUS per la cura e il sollievo dei malati e delle loro famiglie. Nel 2016 riceve il Premio Passaggi, assegnato da Passaggi Festival a personalità che si sono distinte per l’attività di saggistica o per la loro figura morale.
Nell’aprile 2020 entra a far parte della commissione di inchiesta del comune di Milano sulle morti sospette nel Pio Albergo Trivulzio legate all’emergenza Coronavirus. Ha fondato la Ong: Resq People Saving People.
Fondatore e presidente di Autonomia e Indipendenza ed ex membro di Magistratura Indipendente (la componente moderata dei magistrati) Davigo è diventato consigliere della Corte d’Appello di Milano e anche presidente di sezione presso la Corte Suprema di Cassazione (nel 2016) con 18 voti a favore.
Nel luglio 2018 Davigo è stato anche eletto membro del Consiglio Superiore della Magistratura per la componente dei magistrati con funzioni di legittimità. Con il compimento dei 70 anni d’età, avvenuto il 20 ottobre 2020, Davigo è andato in pensione, anche se l’ex pm di Mani Pulite ha avanzato ricorso alla giustizia amministrativa per la decadenza dell’incarico di consigliere del CSM.
Nel luglio 2021 è indagato dalla Procura della Repubblica di Brescia per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio. L’accusa è relativa a verbali di interrogatori di persone indagate coperti da segreto istruttorio e consegnatigli informalmente nell’aprile 2020, quando Davigo era consigliere del Consiglio superiore della magistratura, da parte del pubblico ministero di Milano Paolo Storari. Dal canto suo Davigo ha replicato che Storari gli aveva “segnalato una situazione critica e dato il materiale necessario per farmi un’opinione”.
Davigo è autore anche di diversi testi scientifico-giuridici, come ad esempio La Giubba del Re – Intervista sulla corruzione e La corruzione in Italia – Percezione sociale e controllo penale, il primo in collaborazione con Davide Pinardi e il secondo assieme a Grazia Mannozzi.
Francesco Greco
Napoletano, classe 1951, fa il suo ingresso in magistratura nel 1977, dopo aver ottenuto la laurea a Roma. Due anni dopo, Francesco Greco si trasferisce a Milano in qualità di pubblico ministero. Proprio nell’ambiente milanese riuscì a farsi apprezzare e stimare per il suo lavoro, tanto da entrare diversi anni dopo nel pool di Mani Pulite assieme ad Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, oltre ai più giovani Paolo Ielo ed Elio Ramondini.
Il nome di Greco era diventato noto già nel 1985, anno in cui il magistrato assicurò alla giustizia l’allora segretario del Psdi, Pietro Longo, accusato di aver intascato una bustarella con l’obiettivo di ottenere un appalto Enel.
Dal 2016 Francesco Greco ricopre il ruolo di capo della Procura di Milano. Di recente è stato interessato dall’apertura di un fascicolo per le nomine di sei suoi aggiunti al Consiglio Superiore della Magistratura nel 2017, ma il plenum ha stabilito a larga maggioranza che il procuratore capo non ha interferito su queste nomine.
Tiziana Parenti
Dopo un’iniziale adesione giovanile al PCI di Pisa, entra in magistratura. Magistrato in servizio prima in corte d’assise, poi alla procura di Milano, “Titti la rossa” – come veniva soprannominata da alcuni giornalisti – fu il Pubblico ministero dell’inchiesta denominata dai mass-media delle tangenti rosse, ed è stata sostituto procuratore del pool milanese dal marzo 1993 nell’inchiesta “Mani pulite”. Dopo aver lasciato la magistratura ha intrapreso la professione di avvocato.
Fecero scalpore le sue dimissioni dal pool e dalla magistratura e la successiva adesione a Forza Italia, nelle cui liste fu eletta alla Camera nel marzo 1994 nel collegio maggioritario di Mantova. Fu presidente della Commissione antimafia, nel corso della XII Legislatura. Rieletta nel 1996 alla Camera nel collegio maggioritario di Grosseto, aderì al gruppo di Forza Italia. Successivamente, nel 1998, fu tra i primi aderenti al nuovo partito dell’UDR di Francesco Cossiga. Aderì quindi ai SDI. Accusata nel 1995 di concorso in falso in atto pubblico in un’inchiesta contro alcuni ufficiali dell’Arma dei Carabinieri, viene assolta definitivamente nel 2009.
Nel 2004 aderisce a La Margherita ed esercita l’avvocatura. Nel 2012 rientra nel Partito Socialista Italiano.
di Enrico Camanzi
Tonino, l’arcitaliano. Un po’ contadino furbo delle fiabe, un po’ maschera da commedia dell’arte. Un po’ vendicatore dei torti subiti dal popolo, un po’ sbirraccio da trilogia del Milieu, i noir firmati Fernando Di Leo che fotografarono la Milano livida degli anni ’70. Diversa ma uguale dalla Milano da bere, capitale (im)morale d’Italia nel decennio successivo, che Di Pietro e gli altri pm del pool volevano smontare pezzo per pezzo, petalo per petalo, con le loro inchieste. Antonio Di Pietro, molisano di Montenero di Bisaccia trapiantato nella Bergamasca, è Mani Pulite e Mani Pulite è Antonio Di Pietro.
Il magistrato venuto dal Sud, fino a Tangentopoli segnato con il dito in tribunale per i metodi spicci e l’ambizione irrefrenabile, è il front man dell’orchestra coordinata dal procuratore capo Francesco Borrelli e dall’aggiunto Gerardo D’Ambrosio. Un attacco al cuore della politica italiana, impantanata nelle secche della corruzione elevata a sistema, condotta a colpi di carte – due numeri per tutti: un milione di pagine di atti, migliaia di avvisi di garanzia – che finirà per rivoluzionare, più che il Paese, la vita del suo protagonista numero uno. Il quale, dopo un tiremolla costellato da polpette avvelenate e giravolte da Sor Tentenna, finirà per farsi politico lui stesso, fondando un partito e venendo nominato ministro per due volte.
La mitopoiesi del pm molisano è un genere a sé stante negli anni di Tangentopoli. C’è persino un libro, “Grazie Tonino”, che raccoglie centinaia di lettere, fax, messaggi e cartoline scritte dagli italiani al Superman in toga fra il ’92 e il ’94. Da quando, con l’arresto di Mario Chiesa, il nome di Di Pietro esce dalle aule del palazzo di giustizia milanese per piombare sulle pagine di giornali e schermi televisivi, si scatena la corsa a raccontare il passato dell’uomo che si è messo in testa di scardinare la politica tricolore e il suo castello di potere costruito a forza di “stecche”.
Di lui veniamo a sapere che da bambino è stato mandato in seminario a Termoli dove, in breve, verificò come la sua missione non fosse quella di salvare anime e assistere i poveri. Dalla tonaca alla toga il tragitto è ancora lungo. E prima passa dalla divisa. E, prima ancora, da un momentaneo addio all’Italia. Di Pietro si trasferisce in Germania, nella zona di Stoccarda. Qui il futuro pm d’assalto lavora come operaio in una fabbrica di posate.
Rientrato nel Bel paese saltabecca da un impegno all’altro, in ossequio allo spirito irrequieto di uomo che vuole farsi da solo. Vince un concorso in Aeronautica e trova impiego come perito. Per arrotondare inizia ad amministrare condomini. È qui che si accende in lui il desiderio di studiare Legge. «Se voglio fare strada in questo settore – si dice – devo conoscere a menadito norme, regolamenti, codici e codicilli». S’iscrive alla Statale nel 1973, dopo il matrimonio. Nel 1978, in poco più di quattro anni, si laurea.
Ai tempi del pool un giornale ripescherà il suo libretto di studente universitario. La testata, piuttosto “antipatizzante” nei confronti di Tonino, dovrà riconoscergli il patentino di allievo modello. Di Pietro inanella esami a ritmi da Stakanov fino al sudato diploma, ottenuto con una tesi da 108 su 110. Non gli basta. Vince il concorso come vicecommissario di polizia. Poi il grande salto, con l’esame da uditore giudiziario. Qui a promuoverlo trova Corrado Carnevale, futuro presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione. Figura controversa, rigoroso custode del garantismo per qualcuno, “uccisore” di sentenze per altri, finito nella bufera per alcuni suoi giudizi sprezzanti nei confronti di Giovanni Falcone, avrà disposizione diversa nei confronti del Di Pietro aspirante magistrato, colpito anche dal suo curriculum di studente-lavoratore.
A inizio anni ’80 è a Bergamo, come sostituto procuratore. In provincia gli verrà utile la breve esperienza da poliziotto. È lui a risolvere il giallo del “mostro di Leffe”, un mite bancario accusato – e poi assolto per incapacità di intendere e volere – di aver trucidato suocera, moglie e figlia. Di Pietro conduce l’indagine sul campo. Insieme a due carabinieri della stazione del paese parla con un familiare del killer, che gli confessa i suoi sospetti. Il magistrato firma il decreto di perquisizione dell’abitazione del bancario scomparso nel nulla. Qui, insieme ai militari dell’Arma, si blocca di fronte a un sottoscala murato. Tonino picchietta la parete che suona a vuoto. Il muro viene abbattuto. E svela tre cadaveri. Le due donne e la bambina.
A metà degli anni ’80 Tonino viene trasferito a Milano. I primi anni a palazzo di giustizia sono avvolti in una nebbia da cartolina meneghina. Di Pietro si occupa soprattutto di reati contro la pubblica amministrazione. L’ex operaio nella fabbrica di posate si fa notare per i metodi sbrigativi, retaggio – forse – dell’esperienza in polizia.
È il caso della cosiddetta inchiesta “patenti facili”. Di Pietro scoperchia un presunto sistema che permetterebbe di conseguire il documento di guida senza corsi né esami pagando una cifra fra le 500mila lire e i due milioni. I grandi numeri anticipano gli scossoni di Mani pulite. Centodue arresti, un ordine di cattura del peso di due quintali e mezzo, 480mila fotocopie. Si ipotizza persino l’associazione per delinquere. Rimane nella memoria il blitz in grande stile – e, dirà qualcuno, fuori dai paletti imposti dal codice penale – del giorno degli arresti. Indagati prelevati in casa alle 6 del mattino, interrogatori nella caserma della Celere, locali attrezzati a mensa per gli arrestati. E, in mezzo, “a dirigere i movimenti della polizia stradale”, diranno i quotidiani, Antonio Di Pietro in versione sceriffo del West. Il successivo ridimensionamento delle accuse non scoraggia Tonino. Sente di avere qualcosa di grosso per le mani.
Lo rivela, in parte, un suo articolo sul mensile “Società civile”. Qui il pm descrive il tran tran tangentaro che ammorba Milano. Parla di realtà ormai sedimentata. Utilizza la formula “dazione ambientale”. A motivarlo nel suo lavoro c’è anche uno scoop de Il Giorno sui rapporti opachi fra ospedali e agenzie delle pompe funebri. Il 17 febbraio 1992 le pedine vanno a dama, con l’arresto in flagranza di Mario Chiesa, il presidente della Baggina, casa di riposo nata nel 1766 per fornire un ricovero ai meno abbienti e trasformatasi in un porto sicuro per garantire ricchezze ai più abbienti.
Da quel giorno Di Pietro si sveste idealmente della toga di magistrato (perché lo faccia concretamente dovremo aspettare due anni e mezzo) per indossare i panni dell’angelo sterminatore. La valanga di arresti s’ingrossa di giorno in giorno. Lo spazio su giornali e tv aumenta a dismisura. Sono giorni di lavoro matto e disperato. «Stavo dentro al tribunale venti ore al giorno, non leggevo i giornali, non guardavo la tv – avrà a dire lo stesso Di Pietro – Sapevo solo che dovevo correre, incastrarne quanti più possibile prima che gli altri mi fermassero». I politici tremano. I cittadini fremono. Fuori dal palazzo di giustizia Di Pietro diventa stella, idolo, fenomeno mediatico, icona pop. Fa il miracolo di saldare estrema destra ed estrema sinistra. Sfilano per lui i militanti neofascisti dell’Msi, non ancora sdoganato da Berlusconi, guidati da un entusiasta Maurizio Gasparri che lo definisce «un mito mejo der Duce». Lo esaltano in corteo anche i rappresentanti dei sindacati di base che sfoderano lo striscione “Politici e padroni ridateci i soldoni”. Soprattutto scende in piazza tanta gente comune, che si sente tradita dai partiti.
Non mancano gli eccessi. L’abitudine italiana a saltare sul carro del vincitore e a infierire sui – momentanei – sconfitti si conferma. Pietà l’è morta, anche di fronte ai suicidi in carcere. L’ascesa di Di Pietro al rango di eroe dei vilipesi va oltre i risultati delle inchieste. Agli aperitivi, gli antenati degli happy hour che spopoleranno all’inizio del nuovo secolo, spuntano t-shirt con lo slogan “Milano ladrona, Di Pietro non perdona”, ripreso da un recente motto leghista, in cui il riferimento era però a Roma. E pazienza se la Milano da bere sta perdendo tutte le bollicine. Ci si può consolare con il Gioco di Tangentopoli, “instant game” fra Trival Pursuit e Cluedo, attraverso il quale sentirsi Di Pietro per un giorno. E chissà cosa sarebbe successo se ci fossero già stati i social network e i videogame in stile Fortnite.
La strategia investigativa di Di Pietro e del pool è semplice. Sarà lo stesso Tonino a riassumerla, nelle interviste concesse dopo la fine dell’era Tangentopoli. «È un’indagine sui falsi in bilancio», ragiona l’ex pm. Quando si scoprono cifre che non tornano nei rendiconto delle aziende si va dall’imprenditore e gli si dice – prosegue Di Pietro – «O il reato l’hai fatto tu, procedura fallimentare e societaria, oppure è da qualche altra parte. Dimmi che fine hanno fatto i soldi». E così, chiude il teorema, si rompe il patto fra corrotto e corruttore. Un’intuizione che arriva a Di Pietro – è sempre lui a dirlo – da un’inchiesta su fallimenti pilotati per creare utili in nero condotta quando era a Bergamo. Fin qui il lavoro in ufficio. Dove, ricordano i cronisti dell’epoca, Tonino arrivava di buonissimo mattino, imponendosi turni di lavoro mostruosi.
Il popolo italiano impara a conoscerlo per le sue performance in aula al processo Cusani, attraverso servizi e dirette, queste ultime trasmesse facendo rimbalzare il segnale dallo schermo a circuito chiuso allestito nell’atrio del palazzo di giustizia, così da permettere a decine di cronisti di seguire le udienze. È show. È teatro. È – anche – science fiction.
Oggi fa quasi sorridere leggere un’agenzia dell’epoca descrivere con toni stupefatti l’armamentario tecnologico che Di Pietro porta in aula. Durante le udienze il pm è «supportato da un computer a guida per il maxi schermo installato, da ieri, nell’aula della seconda sezione penale. Tutta la requisitoria è accompagnata al primo sistema multimediale mai ammesso in un’aula di giustizia. Una sfilata di grafici a colori con evidenziati stralci di verbale, documenti acquisiti in dibattimento al fianco dei quali» Di Pietro “può addirittura “aprire una finestra” e proporre, di volta in volta, stralci delle riprese televisive degli interrogatori dei testi”. Meraviglia.
All’incursione nel futuro fa da sponda il recupero della tradizione della commedia dell’arte. Il pm si gratta il capo, sorride ironico, strabuzza gli occhi, agita la penna come un direttore d’orchestra, gesticola più di Totò. Ci manca solo che faccia le capriole come Ferruccio Solieri quando interpreta Arlecchino (maschera originaria della Bergamasca, dove Di Pietro vive, che fa dello sberleffo e dell’inganno ai potenti la sua cifra). Gli avversari sono alle corde. Il segretario DC Forlani schiuma saliva. Alessandro Patelli, ex idraulico, tesoriere della Lega, si dà del “pirla” per i 200 milioni incassati dal gruppo Ferruzzi. Solo Bettino Craxi cerca di fare duello pari. Il segretario socialista è quasi marziale quando scandisce il suo mantra. «Tutti sapevano, tutti incassavano, tutti sono colpevoli». E quindi tutti sono innocenti.
L’ultimo coup de theatre il pm di Montenero di Bisaccia lo riserva alla fine della requisitoria nel processo Enimont. È il 6 dicembre del 1994. Di Pietro dismette gli abiti di scena. Si toglie la toga. Resta in maniche di camicia. In aula, già da un paio d’ore, circola la sua lettera di dimissioni dalla magistratura. La telefonata del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro non serve a fargli cambiare idea. In seguito dirà di averlo fatto «per permettere all’inchiesta di andare avanti e bloccare un sistema di delegittimazione portato avanti da segmenti deviati del Sisde per conto di alte personalità dello Stato e delle istituzioni». È la sua verità. Saranno gli storici – forse – a dire se è la vera verità.
di Andrea Gianni
La cultura, e quindi l’Italia, «non si cambia con i processi». L’eredità dell’inchiesta Mani pulite, trent’anni dopo l’arresto dell’allora presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano Mario Chiesa, colto in flagrante mentre intascava una tangente di sette milioni di lire, è una riflessione amara che arriva da Gherardo Colombo, in quegli anni magistrato del pool della Procura di Milano coordinato da Francesco Saverio Borrelli. «Non siamo arrivati a scoprire tutto quello che è stato fatto ma solo una minima parte – spiega Colombo, 75 anni – e anche quella minima parte non ha portato a una rivisitazione del rapporto fra cittadini e regole. Anche sotto l’aspetto penale, purtroppo, tutto è finito in poco».
Il 17 febbraio è una data simbolica. Che cosa rappresentò quella tappa, l’arresto di Mario Chiesa?
«All’inizio il titolare dell’inchiesta era Antonio Di Pietro, io fui associato in un secondo momento. Pochi mesi dopo l’arresto di Chiesa, nell’estate del 1992, già emergeva con chiarezza che la corruzione era un sistema. Quello fra imprenditori e pubblica amministrazione era un rapporto sistematicamente accompagnato dalla corruzione, generalmente finalizzata al finanziamento illecito dei partiti».
L’inchiesta cadde in un particolare periodo storico, segnato dalla fine della guerra fredda.
«Per la prima volta un’indagine che riguardava reati commessi da persone ai piani alti della società è potuta proseguire. Prima di allora la politica dei blocchi contrapposti giustificava agli occhi di chi commetteva reati il proprio comportamento. Sotto un profilo storico, Mani pulite è la conseguenza dei rivolgimenti di allora, non la causa. Cade il muro di Berlino, finisce il tempo delle ideologie, si dissolvono i partiti tradizionali e contemporaneamente le indagini possono proseguire».
Quale eredità lascia Mani pulite, trent’anni dopo?
«Mani pulite è la dimostrazione che bisogna operare altrove perché cambi il rapporto fra le persone e le regole, perché il processo penale non è lo strumento idoneo. D’altra parte, anche sotto l’aspetto penale tutto è finito in poco se non in peggio: sono state cambiate le leggi, è stata dimezzata la prescrizione, è stato sostanzialmente abolito il falso in bilancio, si è tolta efficacia probatoria a certe fonti di prova».
Come si potrebbe modificare questo rapporto?
«Il punto di partenza è la Costituzione, che riconosce universalmente la dignità delle persone. Nel 1938 entrava in vigore la prima legge razziale e dieci anni dopo è nata la Costituzione, cambiando del tutto prospettiva rispetto a quando togliere la dignità alle persone era la regola. Noi, purtroppo, non siamo ancora stati capaci di adeguarci a questo cambiamento».
Lei ha detto, in passato, che «sulla corruzione abbiamo perso». Ci sono segnali di speranza per il futuro?
«Bisogna investire tanto in cultura e in educazione, quando esiste un conflitto fra la legge e il mondo di pensare prevale il modo di pensare. Purtroppo la politica continua a vivere alla giornata, a guardare i sondaggi del giorno dopo e alle prossime elezioni, senza fare, di solito programmazioni a lungo termine».
Come è cambiata la corruzione in questi trent’anni?
«La corruzione connessa al finanziamento illecito dei partiti quasi non esiste più, perché il finanziamento illecito, se c’è, passa per altri canali. C’è tanta corruzione spicciola e strisciante, a tutti i livelli della burocrazia ma anche fra i cittadini comuni. La mentalità non è cambiata. Viene apprezzato chi è furbo, chi non paga le tasse: tutto l’opposto del disegno della Costituzione. Adesso siamo di fronte agli investimenti legati al Pnrr: bisogna tenere gli occhi bene aperti, perché il rischio è sempre dietro l’angolo».
Da quando ha lasciato la magistratura, è in prima linea per avvicinare i ragazzi alla legalità.
«Credo sia importante il dialogo, e parlare di cose che li riguardino da vicino. Per esempio mi capita di parlare di torte, dei rapporti che esistono tra una torta e le regole. Se non si segue la regola, la ricetta, la torta vien male. Le regole sono uno strumento che serve per ottenere risultati, come le ricette per le torte. Il futuro è anche nelle mani dei giovani, sperando che gli adulti non li ostacolino continuando ad educarli alla discriminazione».
Trent’anni fa i magistrati venivano descritti come eroi. Ora si respira un clima di sfiducia anche nei confronti della magistratura.
«I magistrati sono il riflesso della società, la fiducia nella politica è ancora più bassa. Sono necessarie riforme strutturali molto profonde correggendo tutto ciò che non funziona nella giustizia, a partire dalla lunghezza del processo. Bisognerebbe depenalizzare molto, fare in modo che il processo penale non sia centrale come oggi. In questi anni ho maturato la convinzione che il carcere andrebbe abolito. Ora c’è un tasso di recidiva altissimo, e chi esce dal carcere molto spesso ci ritorna: vuol dire che lo strumento carcere non serve a garantire la nostra sicurezza. Premetto che chi è pericoloso non può rimanere in libertà, ma deve stare da un’altra parte solo fintantoché è pericoloso e in modo che tutti i suoi diritti che non confliggano con la sicurezza altrui siano garantiti. Fuori da queste situazioni sono necessari programmi riabilitativi da eseguire in libertà».