di Mario Consani
Sette milioni di lire. Oggi sarebbero più o meno 6 mila euro, un po’ poco per far crollare un intero sistema politico. Eppure, in teoria tutto cominciò così, con una mazzetta da sette milioni incassata dal socialista Mario Chiesa nel suo ufficio di presidente del Pio Albergo Trivulzio, con i carabinieri che entrano e lo trovano così («con le mani nella marmellata» dirà il pm Antonio Di Pietro ancora sconosciuto), l’arresto per concussione, il via all’inchiesta che diventerà Mani pulite, il primo scorcio su Tangentopoli.
Trent’anni fa il 17 febbraio 1992, secolo scorso. In realtà, più che l’avvio dell’indagine quella fu la goccia che fece traboccare il vaso di un sistema in vigore da decenni dove ogni appalto, incarico, licenza, concessione aveva un prezzo, una pratica divenuta ormai insopportabile per un’Italia in profonda crisi economica ma uscita dalle logiche della guerra fredda e ansiosa di cambiamenti.
Così tre settimane dopo quel 17 febbraio bastò un termine, «mariuolo», con cui il leader del Psi Bettino Craxi battezzò in un’intervista Chiesa a volerlo indicare come l’unica mela marcia del cesto, per far sì che in carcere l’ingegnere cresciuto a Quarto Oggiaro ritrovasse memoria e parola iniziando a raccontare quello che sapeva.
Bastò perché di lì a pochi mesi l’effetto a catena degli arresti, delle confessioni e delle successive scarcerazioni di imprenditori, manager e funzionari di stato, persino di qualche politico, contribuisse a demolire una Prima Repubblica – fondata sui partiti di governo Dc, Psi, Pri, Psdi, Pli, tutti ora scomparsi – dove le mazzette e i finanziamenti (illeciti perché non dichiarati) avevano di fatto alimentato l’ intero sistema democratico. E l’ex Pci che dopo il crollo del comunismo aveva cambiato nome in Pds? A Milano colpito anche quello, a livello nazionale meno perché al tavolo della spartizione si faceva “pagare“ più che con i soldi con lavori e appalti assegnati alle sue cooperative (che poi erano generose con il partito, le sue feste e il suo giornale).
Così, quella stessa Italia atterrita dalla mafia che uccideva Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, magistrati che della lotta alle cosche erano diventati loro malgrado simboli, sembrò esaltarsi nell’assistere incredula alla caduta, uno dopo l’altro perché «raggiunti da avviso di garanzia», degli uomini politici che aveva sempre visto al potere. E quel pm molisano dallo sguardo sveglio e abile con i computer (grande novità) diventò in poco tempo una specie di cavaliere senza macchia e senza peccato capace di distruggere la corruzione. Non poteva finire così, naturalmente, però l’inchiesta Mani pulite nel giro di un paio d’anni fece finire sul banco degli imputati (poi condannati) i leader dei partiti storici – oltre a Craxi il dc Arnaldo Forlani, il repubblicano Giorgio La Malfa, il socialdemocratico Carlo Vizzini, il liberale Renato Altissimo e persino il leghista Umberto Bossi – scoperchiando un pentolone fatto realmente di favori, appalti e mazzette.
Durò poco. Giusto un paio d’anni prima che il pool (Di Pietro ma anche Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo) coordinato da Gerardo D’Ambrosio e dal capo Saverio Borrellli, agli occhi di una parte di opinione pubblica perdesse il “tocco magico“. In mezzo c’era stato il processo al finanziere Sergio Cusani, braccio destro dell’imprenditore Raul Gardini inventore della «madre di tutte le tangenti», quella da 175 miliardi per l’affare Enimont (Gardini e Gabriele Cagliari, l’ex presidente Eni, si tolsero la vita).
I social non esistevano (c’era il “popolo dei fax” che manifestava anche in strada a fianco dei magistrati) ma furono in milioni, quasi quanti per una partita della Nazionale di calcio, a seguire in tivù il processo Cusani in cui i politici sfilavano in aula sotto gli occhi delle telecamere. Da lì – e dal crollo del sistema – all’avvio della “Seconda Repubblica” dopo la discesa in campo di Silvio Berlusconi, il passo sarà breve. Poi però, appena il tempo che i pm mandino «l’avviso di garanzia» anche a lui, Berlusconi, e Di Pietro a sorpresa (ma non troppo) si dimetterà dalla magistratura prima di diventare a sua volta un imputato (prosciolto) e quindi un politico. Ma questa è già un’altra storia.
di Cristiana Mariani
«Di Pietro facci sognare», «L’impegno di Di Pietro sarebbe piaciuto a Leonardo Sciascia», «La grande pulizia: lo scandalo che sconvolge l’Italia»: Tv Sorrisi e Canzoni, Famiglia Cristiana e Newsweek titolavano così in prima pagina nel 1993. Tutti inneggiavano alla figura più riconoscibile del pool di Mani Pulite: Antonio Di Pietro. Ma non solo sui giornali: anche per strada e persino sui muri si celebra il pubblico ministero e l’inchiesta su Tangentopoli.
Per la prima volta, con Mani Pulite e gli arresti di politici e imprenditori che si susseguono praticamente in maniera quotidiana, i magistrati iniziano ad avere dei fan. E per la prima volta nell’opinione pubblica si fa largo un concetto che nel corso dei decenni assumerà anche il significato di un certo qualunquismo e di disinteresse nei confronti della classe dirigente: i politici sono tutti ladri. Già, il concetto stigmatizzato nel film del 2017 “Come un gatto in tangenziale” del “E’ tutto un magna magna” è nato negli italiani proprio all’inizio degli anni Novanta dopo l’arresto di Mario Chiesa e tutte le rivelazioni che sono seguite e che hanno dato vita proprio a Tangentopoli.
Quella era un’Italia che arrivava dagli anni Ottanta, dagli anni di piombo, ma anche in quel preciso momento un’Italia che si stava asciugando le lacrime per la morte del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo, anch’ella magistrato, e degli agenti scorta Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani: la strage di Capaci, 23 maggio 1992. Tre mesi e mezzo dopo l’arresto di Mario Chiesa per le tangenti del Pio Albergo Trivulzio. Lo Stato, agli occhi degli italiani, era diventato improvvisamente un’istituzione vulnerabile, fragile, piena di buchi. Un’istituzione rappresentata da un lato da un magistrato, Giovanni Falcone, che era così scomodo nel servire lo Stato da dover essere eliminato dalla criminalità e dall’altro da una classe politica che stava così comoda nelle proprie poltrone da decidere di usare lo Stato, e il denaro pubblico, a proprio piacimento.
Ecco spiegato il motivo per il quale proprio con l’inchiesta giudiziaria di Mani Pulite l’opinione pubblica ha iniziato a prendere una posizione forte contro il mondo politico. E a favore della magistratura. Una magistratura vista come il “supereroe che punisce i cattivi” e che libera l’Italia dalla corruzione. Una magistratura che perde progressivamente la toga e indossa sempre di più gli abiti di scena. Gli italiani vogliono vedere i protagonisti di Mani Pulite, i “buoni”. Gli italiani li vogliono conoscere e così c’è chi addirittura quando passano per strada li tocca, quasi come fossero santi da venerare.
E i politici? Per converso la classe politica diventa oggetto di scherno, di derisione, di accuse pesanti – ancora prima del famoso lancio di monetine a Bettino Craxi all’uscita dall’Hotel Raphael di Roma, ai funerali del giudice Giovanni Falcone, della moglie e della scorta i politici presenti vengono additati e apostrofati in malo modo dalla folla -, viene considerata indegna di rappresentare l’Italia. Ed è anche per reazione a questo clima che la Lega Nord di Umberto Bossi, che è ancora un movimento e in un secondo momento si trasformerà in un partito, riscuote grande successo. Lo slogan principale? Neanche a dirlo, «Roma ladrona».
di Arnaldo Liguori
«Tangenti per tutti i gusti: a percentuale o a forfait, pronti contanti o a rate, agganciate al dollaro o alla sterlina, pagate per strada o al cantiere, in pieno giorno o a tarda sera, in cielo, in terra o in ogni luogo». Era questo il quadro tracciato da un pubblico ministero all’inizio degli anni Novanta. Ancora oggi, dare una misura alla corruzione precedente all’inchiesta Mani Pulite è difficilissimo. Per farlo, occorre fare un passo indietro e tornare al decennio precedente al 1992, a quell’epoca di ottimismo che permetteva ad un quotidiano nazionale, in prima pagina, di titolare: «L’Italia è ricca e scopre il lusso».
Erano i «dorati anni Ottanta», quelli in cui si «faceva il denaro con il denaro». Gli italiani iniziavano a giocare in borsa, la politica prometteva tutto a tutti e l’economia cresceva di pari passo con il debito pubblico. La popolazione, stanca della lotta politica, degli anni di Piombo e delle stragi, iniziava a ripiegarsi nel privato e la «Milano da bere» era la capitale di questo fervore nazionale.
In quel decennio, il Prodotto interno lordo italiano quadruplicò. Tutti volevano una fetta della torta. La corruzione, che aveva sempre permeato alcuni strati sociali, crebbe a dismisura. Lo studioso Franco Cazzola, autore di uno dei pochi studi sulla corruzione negli anni Ottanta, ha stimato che in quel periodo circa 9mila miliardi di lire finissero ogni anno nelle mani dei corrotti. Stiamo parlando – tenendo conto dell’inflazione – di circa 14 miliardi di euro odierni.
«Per farsi un’idea, basta guardare i dati degli appalti», spiega Cazzola. «Prima di Mani Pulite, le imprese di costruzione si aggiudicavano gli appalti con un ribasso del 10 per cento rispetto alla base d’aste. Dopo Mani Pulite, questo ribasso era del 40 per cento». In pratica, quel 30 per cento di differenza erano le tangenti che finivano nelle tasche dei corrotti e che la comunità pagava, senza saperlo, per ogni opera pubblica.
«Ai partiti – principalmente la Democrazia Cristiana e il Partito Socialista – andava un 10-15 per cento», chiarisce lo studioso, «ma l’altro 15-20 per cento andava agli imprenditori. La corruzione non era un fatto esclusivamente politico, era l’intera società che viveva di corruzione».
A questo contesto, si univa un crescente noncuranza per la cosa pubblica. Già nel 1980 il rapporto annuale del Censis sottolineava i «sempre più evidenti rinserramenti nel proprio “particolare” interesse» da parte degli italiani. La società intera era «portatrice di comportamenti microtrasgressivi e contemporaneamente di cultura della legalità, promotrice dell’utilizzo privato dei partiti in funzione di interesse personale e di carriera», eppure pronta a condannare quegli stessi comportamenti.
Secondo lo storico Aldo Giannuli, «non è esagerato stimare che il volume complessivo della corruzione politica abbia toccato il 12-13 per cento del valore del Pil italiano. Questo avvenne solo in parte a spese di una parte dei contribuenti, la parte più rilevante delle risorse venne sottratta alle generazioni future». Dal 1980 al 1992, il debito pubblico raddoppiò, passando dal 55 al 108 per cento del Pil. Un macigno che ancora pesa sui giovani d’oggi.
A quel tempo, il giornalista Giampaolo Pansa scriveva che la corruzione era dilagata «tra quasi tutti i periti, tra i burocrati comunali, tra molti professionisti e imprenditori», in «una sensazione diffusa di impunità che favorisce il pullulare di tanti piccoli Don Rodrigo» e produce «infine una rabbia senza rimedio dei cittadini privi di potere costretti ogni giorno a sbattere la faccia contro una realtà» che l’allora Presidente dell’Ordine degli architetti descrisse efficacemente con otto parole: «Oggi bisogna pagare anche per avere il dovuto».
Ed è a quel punto che, all’improvviso, tutti i nodi vennero al pettine. A livello collettivo – scrive lo storico Guido Crainz – si cominciava «a vedere che la politica non solo tendeva a non occuparsi della società (che le era sfuggita davanti già da molto tempo) ma neppure dello Stato».
Quando nel 1992 scoppiarono le inchieste, la classe politica era quindi già profondamente delegittimata. Fin dall’inizio, un tifo da stadio circondò l’inchiesta giudiziaria. L’Italia si trovò immediatamente pronta a deplorare quel sistema che già sapeva essere corrotto. E più forte il popolo condannava i politici, più assolveva sé stesso.
di Enrico Dallera
Tra le ultime picconate che hanno sancito la fine della Prima Repubblica, già al centro della bufera nell’inchiesta di Tangentopoli, c’è sicuramente la mancata approvazione del “decreto Conso”. Definito “colpo di spugna”, nel 1993 il decreto proposto dal ministro della Giustizia Giovanni Conso, che avrebbe depenalizzato il finanziamento illecito ai partiti, è passato alla storia perché per la prima volta dalla nascita della Repubblica italiana l’allora presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiutò di firmarlo, ritenendolo incostituzionale.
Giovanni Conso, nato a Torino il 23 marzo 1922 e morto a Roma il 2 agosto 2015, era presidente emerito della Corte Costituzionale. Professore ordinario di procedura penale e autore di numerosi manuali, era stato nominato giudice costituzionale da Sandro Pertini il 25 gennaio 1982: eletto presidente della Consulta il 18 ottobre 1990, aveva esercitato fino al 3 febbraio 1991. Come ministro della Giustizia prese il posto del socialista Claudio Martelli: oltre al caso legato a Mani Pulite, nel marzo 1993 scelse di non rinnovare oltre 300 provvedimenti di “41 bis” a mafiosi sottoposti a carcere duro. Per questo motivo era stato iscritto nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta di Palermo sulla trattativa Stato-Mafia. Trattativa di cui ha sempre negato l’esistenza, sottolineando di aver preso quella decisione per fermare la minaccia di altre stragi.
Giovanni Conso è stato Guardasigilli in una delle fasi più difficili, se non la più critica, nella storia dei rapporti tra politica e giustizia. Il 5 marzo 1993, il governo del premier Giuliano Amato varò un decreto, proposto appunto da Conso, che depenalizzava il reato di finanziamento illecito ai partiti. Il decreto, che recepiva un testo già discusso e approvato dalla Commissione Affari Costituzionali del Senato, conteneva una norma che ai sensi dell’articolo 2 del codice penale avrebbe avuto un valore retroattivo e quindi avrebbe compreso anche gli inquisiti di Mani Pulite.
Le inchieste di Tangentopoli correvano il serio rischio di insabbiarsi. La Procura di Milano guidata dai magistrati Francesco Saverio Borrelli e Antonio Di Pietro gridò allo scandalo, così come l’opinione pubblica e i media. Una rivolta fortissima, sostenuta anche dal clima che si viveva in quel periodo in Italia, che convinse il presidente Scalfaro a non firmare il testo, nonostante la difesa del premier Amato che riteneva il decreto una soluzione politica necessaria. Non mancarono pesanti ripercussioni anche all’interno dell’esecutivo: Carlo Ripa di Meana, ministro dell’Ambiente, rassegnò le dimissioni dopo aver votato contro.
Nonostante il documento porti il nome del ministro Giovanni Conso, in realtà tenne i contatti con il Quirinale – ai fini della sua emanazione – lo stesso presidente del Consiglio Giuliano Amato. Conso offrì immediatamente le dimissioni all’indomani della scelta del presidente della Repubblica di non firmare il decreto, dettata da esigenze sopravvenute in seguito alla protesta dei magistrati della Procura di Milano. A quel punto, consapevoli della sua totale estraneità alla vicenda, Amato e Scalfaro scagionarono il ministro della Giustizia agli occhi dell’opinione pubblica, inducendolo a ritirare le dimissioni e confermandolo nel successivo governo di Carlo Azeglio Ciampi.
di Simone Stimolo
Rivoluzione popolare o intifada pilotata? Giustizia preventiva o errore storico? La fine di un sistema o solo l’inizio del “vaffa”? Il 30 aprile del 1993, un anno dopo la deflagrazione dell’inchiesta Mani Pulite, davanti all’hotel Raphaël di Roma calò il sipario su quello che, obtorto collo, era divenuto uno dei simboli, se non il simbolo, di Tangentopoli, il leader socialista Bettino Craxi. E insieme sull’intera classe politica che aveva accompagnato la nascita dell’Italia repubblicana, la cosiddetta Prima Repubblica. Un sipario amaro, azionato da una pioggia di monetine contro Craxi e la sua scorta.
Il piglio e il carisma dell’uomo politico che aveva guidato per anni l’Italia in una dimensione europea, che aveva tenuto testa agli americani, che aveva rotto i rapporti di parentela con il comunismo di qua e di là dalla Cortina, non bastavano più: il destino di Craxi sarebbe stato quello di riparare ad Hammamet, in esilio forzato, mentre si sfogava la tempesta giudiziaria. Non sarebbe più rientrato.
Craxi era reduce dal voto della Camera che per 4 volte su 6 negò l’autorizzazione a procedere per le accuse di corruzione e ricettazione nell’ambito di Mani Pulite. Un risultato, in fondo positivo, raggiunto al culmine di un duro discorso – il 29 aprile a Montecitorio – del leader socialista che sottolineava come il finanziamento alla politica (tutta) fosse soprattutto e inevitabilmente “irregolare e illegale”. Ma il vento era cambiato.
Gli annali hanno raccontato di un Craxi avvisato del rischio di uscire dalla porta principale del Raphaël (dove aveva la sua residenza romana) consigliando una poco nobile “fuga” dal retro. Fedele al suo carattere, ma sottovalutando quello che stava accadendo nella piazza e nel Paese, Craxi scelse la porta principale. Trovò le monetine, i cori da stadio, la gente che sventolava banconote da mille lire (“Vuoi anche queste?”), una telecamera del Tg3 che consegnò la vicenda alla cronaca e alla Storia.
Nel ricordo del giornalista Filippo Facci – che a quella sera ha dedicato il libro “30 aprile 1993. Bettino Craxi, l’ultimo giorno di una Repubblica e la fine della politica”- «c’erano quelli del MSI, della Lega, c’erano i reduci di un comizio di Achille Occhetto in Piazza Navona, passarono di lì anche molti studenti del Liceo Mamiani che erano in corteo: nell’insieme fu più che sufficiente per far scrivere a tutti che quella era l’Italia». Che fosse o meno l’Italia, di sicuro l’Italia credette davvero di riconoscersi in quelle immagini, una manciata di secondi, ma sufficienti a dire basta. O a credere di dirlo, che poi è la stessa cosa. Un sentimento collettivo e la sua rappresentazione plastica (non l’unica – chi l’ha vista, non ha dimenticato la drammatica deposizione in Aula, nel dicembre di quell’anno, di Arnaldo Forlani – certo la più emblematica).
A quasi 30 anni dall’episodio e a 22 dalla sua morte, su Craxi non è ancora stata scritta la parola definitiva della Storia: la volontà di riabilitazione portata avanti negli anni da figli ed ex compagni almeno sul suo ruolo di statista (lo stesso di Sigonella o dei trattati europei) non si può dire soddisfatta da qualche strada intitolata qua o là, né dal film “Hammamet” di Gianni Amelio, che non ha di fatto aperto una breccia nella riflessione collettiva. Ma quel passaggio fu comunque definitivo anche per tutta una classe politica e per la considerazione che gli italiani avevano fino a quel momento delle istituzioni.
Se è vero che seconde, terze e forse quarte repubbliche sono titoli più che passaggi costituzionali, quanto successe il 30 aprile 1993 non fu gattopardesca polvere negli occhi. Con la fine di una classe politica (dei partiti di allora, si sa, è rimasto solo la Lega, all’epoca l’anticasta per eccellenza) e l’avvento di una nuova (nel 1994 arrivarono Berlusconi e Forza Italia), cambiarono davvero clamorosamente l’approccio e il linguaggio della politica e improvvisamente le istituzioni, persa qualsiasi residua sacralità, divennero anche meno “distanti”. Abbattute le barriere tra il rappresentante e il rappresentato, con il tempo sono venute meno la forma e pure la sostanza. Così quella gogna (che a distanza di 29 anni tanti condannano) è in realtà diventata – con i social, certo, ma già prima – l’orizzonte di intere carriere. Non è tanto lo scandalo (giudiziario o meno), ma il tasso di indignazione quello che conta. Può bastare un tweet a far partire le monetine. Davvero era questo l’obiettivo di quella piazza?
di Cristiana Mariani
Quarantuno. Quarantun nomi e cognomi. Quarantun persone che si sono tolte la vita a causa, diretta o indiretta, dell’inchiesta giudiziaria Mani Pulite e delle sue ramificazioni. Ma anche dei sospetti che il clima che si era creato in Italia all’inizio degli anni Novanta aveva ingenerato. Suicidi, al contrario di quanto si potrebbe pensare, messi in atto soprattutto da persone – imprenditori, professionisti o figure politiche – che non erano in carcere e, in alcuni casi, non erano neppure indagate.
Per cercare di capire le ragioni di questo fenomeno – trattandosi di 41 casi non li si può immaginare come episodi isolati – bisogna tornare con la mente a quei primi anni Novanta, a quello stigma sociale su cui pesava chiunque fosse anche solo sfiorato da Tangentopoli e dai suoi numerosi rivoli. L’arresto di Mario Chiesa, avvenuto il 17 febbraio 1992, e i conseguenti provvedimenti – compresi quelli di custodia cautelare in carcere di cui poi il pool di magistrati è stato accusato di fare un uso troppo disinvolto – aveva fatto schierare l’opinione pubblica completamente dalla parte dei magistrati e contro politici, imprenditori e funzionari pubblici.
Il primo a togliersi la vita nell’ambito di Mani Pulite è stato Franco Franchi, coordinatore della Usl 75 di Milano uccisosi nel maggio del 1993, due mesi prima di Giuseppe Rosato, un messo comunale di Trecate, in provincia di Novara, sul cui conto è stato trovato un deposito di un miliardo. Franchi non era coinvolto nelle indagini, ma era consapevole del fatto che prima o poi sarebbe finito sotto la lente della magistratura. A uccidersi poco dopo sono stati anche Renato Morese, segretario del Partito socialista di Lodi, Giuseppe Rosato, Mario Luciano Vignola e l’imprenditore di Como Mario Comaschi. Politici, ma non solo quindi: il cerchio si stringe anche attorno a imprenditori e funzionari. Un cerchio della vergogna, si potrebbe dire.
Il 2 settembre 1992 si toglie la vita Sergio Moroni, deputato del Partito socialista e tesoriere del partito in Lombardia. Tre gli avvisi di garanzia che gli erano stati recapitati. Prima di spararsi un colpo di fucile alla testa nella cantina della sua casa di Brescia, Moroni scrive una lettera indirizzata all’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano, in cui parla di sciacallaggio, processo sommario e violento e dichiara di essere innocente. A togliersi la vita in carcere è invece Gabriele Cagliari, presidente dell’Eni. Si uccide soffocandosi con un sacchetto di plastica e anch’egli lascia lettere in cui parla di gogna mediatica alla quale era stato sottoposto. Il nome che però fa più scalpore è quello di Raul Gardini, manager a capo del colosso del settore agroalimentare della famiglia Ferruzzi di Ravenna. Gardini si toglie la vita nella sua casa di Milano dopo essere stato indagato per una tangente da 150 miliardi di lire nell’affare Enimont. Non viene arrestato, ma si suicida pensando che potrebbe presto finire in manette.
Che Antonio Di Pietro e tutto il pool di Mani Pulite fossero magistrati scomodi e che in tanti volessero eliminarli era ipotizzabile e sotto gli occhi di tutti: la loro azione stava scardinando un sistema che vigeva da decenni. C’era però chi voleva passare dalle parole ai fatti e così ecco arrivare attacchi di vario genere. Come “Gli uccideremo il figlio”, la minaccia nei confronti di Antonio Di Pietro inviata dalla Falange Armata, organizzazione terroristica salita alla ribalta in Italia nei primi anni Novanta. Non solo. Secondo il giornalista Marco Travaglio, Silvio Berlusconi avrebbe inviato un fax alla redazione de Il Giornale, di cui era proprietario il fratello Paolo, ordinando di «sparare a zero sul pool». Ma il direttore de Il Giornale all’epoca era Indro Montanelli e il condirettore era Federico Orlando ed entrambi si sarebbero rifiutati di obbedire.
di Andrea Gianni
«Erano spaesati, entravano in carcere in giacca e cravatta. Ricordo uno di loro che, alla mia domanda, rispose che per mestiere costruiva ponti in Giappone». Lo psicologo Angelo Aparo lavorava nel servizio allestito dal carcere di San Vittore per prevenire i suicidi quando, nei primi anni ’90, i “miliardari” entrarono nei penitenziari. Uno di loro, Sergio Cusani, agli arresti per la maxi-tangente Enimont, partecipò dal settembre 1997 al primo Gruppo della Trasgressione, un’iniziativa creata da Aparo per il recupero dei detenuti attraverso l’auto-percezione delle proprie responsabilità, ancora attiva a Opera, Bollate e San Vittore. Condivideva il percorso con 19 persone finite in cella per rapine, spaccio e altri reati.
«Con Cusani il gruppo decollò – ricorda Aparo – perché con la sua influenza era in grado di coinvolgere e portare in visita in carcere politici, giornalisti e personaggi del mondo dello spettacolo». Ornella Vanoni e Roberto Vecchioni, Enzo Biagi e Fabio Fazio, Enzo Jannacci e Piero Chiambretti, solo per citare alcuni nomi. Presenze inedite nelle carceri, così come quelle (prima degli anni ’90 più sporadiche) di detenuti «appartenenti alle alte sfere».
Aparo, che ha trascorso tutta la sua vita professionale nelle carceri, vuole sfatare un luogo comune. «Dalla mia esperienza non ci sono mai stati problemi con i detenuti comuni – spiega – anzi si creava una sorta di “maternage”. Per un detenuto comune prendere un miliardario sotto la propria ala protettiva significava aprire le porte a futuri benefici e opportunità, in un meccanismo dettato più che dal buon cuore dalla convenienza. Così un miliardario, che all’inizio viveva il carcere come un incubo, alla fine maturava la convinzione che i detenuti fossero le persone più buone del mondo. L’esperienza però era senza dubbio dolorosa, per chi non aveva mai conosciuto la reclusione e soprattutto la vergogna nei confronti di figli, parenti e amici. Alcuni si sono suicidati, lo stesso Cusani soffriva».