L’eredità irrisolta di Tangentopoli

Le conseguenze di Tangentopoli

di Andrea Morleo

Tangentopoli è il più grande scandalo dell’Italia repubblicana, ha lasciato un’impronta indelebile e duratura nella storia del nostro Paese come nessun altro evento e ha tracciato un “prima” e un “dopo”. A ben guardare Mani Pulite è stato per il nostro Paese quello che per gli Stati Uniti ha rappresentato il Watergate, il momento in cui il lato oscuro della politica si manifesta in tutta la sua dolorosa evidenza. Quella stagione convulsa di arresti, avvisi di garanzia, confessioni, titoloni sui giornali, suicidi e processi ha lasciato un’Italia prima ferita e smarrita, poi arrabbiata ma alla fine incapace di trasformare quell’indignazione in un processo di ricostruzione della democrazia su basi più “sane”. Quel trauma collettivo in fondo non è mai stato metabolizzato e l’auspicata rivoluzione culturale non è mai avvenuta, nonostante i venti di rinnovamento che in quegli anni spiravano insieme al crollo del Muro di Berlino.

 

A distanza di trent’anni molti vizi della Prima Repubblica rimangono tuttora irrisolti: la disaffezione politica semmai è aumentata, la corruzione rimane questione attualissima come la crisi dei partiti a cui, novità di questi ultimi tempi, si è aggiunta quella della magistratura verso cui gli italiani avevano affidato le loro speranze di rinnovamento. La nemesi perfetta, si direbbe, di un Paese dove «tutto cambia perché nulla cambi». E anzi oggi gli italiani appaiono ormai rassegnati, più disincantati cinici che mai come se il trauma di Tangentopoli sia stato curato con l’elettroshock quando invece sarebbe servita una grande e collettiva seduta psicanalitica.

Crisi dei partiti

 

Mani Pulite segna l’inizio della fine della Prima Repubblica, che la storiografia fa coincidere con le elezioni politiche del 27 marzo 1994, le prime con il “mattarellum” e un sistema bipolare in stile anglosassone che per la verità da noi non ha mai attecchito. In realtà è l’arresto di Mario Chiesa (17 febbraio 1992) il prodromo della caduta del sistema politico e lo sbriciolamento dei partiti che avevano retto la Repubblica dal 1948 al 1993. Anche oggi per la verità i partiti della Seconda Repubblica non godono di grande salute: la distanza tra rappresentanti e rappresentati è sempre più evidente e l’affluenza alle ultime elezioni politiche 2018 – 72,93% alla Camera e 72,99% al Senato, la più bassa nella storia repubblicana – ne è un chiaro indizio. Il governo tecnico dell’ex banchiere Mario Draghi e l’imbarazzante settimana di valzer quirinalizio che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella mettono l’inequivocabile sigillo a questa fragilità.

 

Corruzione 

 

La cronaca giudiziaria degli ultimi trent’anni – dal Mose a Expo 2015, passando per il G8 alla Maddalena – dimostra che politici e imprenditori continuano a fare affari illeciti insieme. Con una differenza di stile, se vogliamo: una volta le bustarelle si intascavano per il partito, oggi ognuno lavora pro domo sua. Il che ha portato a situazioni grottesche al limite del surreale come la vicenda di Claudio Scajola (Forza Italia), costretto a dimettersi da ministro, finito a processo (poi assolto) per quella la casa con vista Colosseo acquistata “a sua insaputa” dall’imprenditore Diego Anemone a un prezzo di un terzo inferiore a quello reale. Per non parlare di quei consiglieri regionali lombardi condannati – l’operazione non a caso si chiama Rimborsopoli – per aver inserito tra i rimborsi spese il conto del pranzo di nozze della figlia o lo scontrino della Nutella acquistata al supermercato. E cosa dire dei 49 milioni di euro spariti dai conti della Lega, che ha cancellato dal nome la parola  “Nord” ma è sempre quella fondata dal “senatur” nel 1991 al grido di “Roma ladrona”?

 

Così fan tutti

 

In questi giorni centinaia di truffatori risultano indagati per avere percepito illecitamente miliardi di euro distribuiti con il Superbonus per l’edilizia. E allora oggi ad approfittarsi dei soldi pubblici (ovvero soldi nostri) non è stata solo la tanto vituperata “casta” dei politici ma anche imprenditori senza scrupolo che truffano lo Stato (sempre noi) e anzi lo deridono pensando come aggirare leggi mal scritte, proprio come i loro “colleghi” che brindavano all’indomani del terremoto 2009 e ai possibili affari sporchi dietro la ricostruzione dell’Aquila. Ancora una volta Mani Pulite sembra non avere insegnato nulla.

 

Opinione pubblica

 

Così non stupisce se nell’opinione pubblica c’è la sensazione che in realtà dal 1992 non sia cambiato molto. Da una recentissima indagine di Demos-Libera sulla percezione della corruzione e delle mafie sei cittadini intervistati su dieci ritengono che i due fenomeni siano lo specchio della società. L’intreccio tra politica e corruzione resta fortemente radicato nell’immaginario dei cittadini, una “patologia nazionale”. A posteriori questa rassegnazione è di per sé una sconfitta per l’inchiesta che scoperchiando il sistema corruttivo con cui si finanziavano i partiti ne denunciava il tradimento della loro funzione democratica, l’affermarsi di una cultura fondata sul privilegio, sulla sopraffazione. Dal sondaggio emerge un’Italia che assomiglia più a una repubblica sudamericana perché così la percepisce il suo stesso popolo, quello che avrebbe dovuto guidare il cambiamento e che invece si rassegna. E questo è ancora più preoccupante sullo stato di salute della nostra democrazia.

 

Antipolitica e populismo

 

Il malaffare della politica denunciato da Tangentopoli ha dato vita anche a una reazione opposta e contraria, che a sua volta è diventata sempre più una costante nella Seconda repubblica: l’antipolitica che trova terreno fertile nel populismo. Nel 1994 Silvio Berlusconi si propone come l’imprenditore del fare, estraneo alle logiche della vecchia politica e poco importa se il Cavaliere negli anni della “Milano da bere” abbia costruito la sua fortuna imprenditoriale proprio grazie alla solida amicizia con Bettino Craxi e il suo rampante Psi. L’inchiesta Mani Pulite produce anche un modo nuovo di fare politica, uno story-telling che si fonda su un messaggi semplici e diretti alla “pancia” del popolo arrabbiato, meglio ancora se irriverente come il “celodurismo” di Umberto Bossi che con la sua Lega Nord si presenta come l’alternativa al sistema, chiedendo addirittura la secessione da Roma con tanto di “canotta” nazionalpopolare a rimarcare la distanza dalla “casta”. Beppe Grillo invece preferirà i “Vaffa Day” per menar picconate ancora una volta al sistema dei partiti mentre Matteo Renzi inaugurerà la stagione della “rottamazione” in casa Pd. Tutti a fare i Masaniello e pensare che invece, direttamente o attraverso i loro partiti, continuano a occupare la stanza dei bottoni.

Mani Pulite, le critiche all’inchiesta

di Mauro Cerri

La critica più pungente a Mani Pulite, se di ciò si può parlare, è una sorta di autocritica. La pronunciò Francesco Saverio Borrelli, l’ex procuratore capo di Milano, alla guida del pool di magistrati che lavorarono alla più importante e discussa inchiesta italiana sulla corruzione, durante la presentazione di un libro nel 2011, quando al governo c’era Silvio Berlusconi. «Scusate per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale», disse Borrelli gelando la platea e infiammando il dibattito pubblico dei giorni successivi.

 

Più che una stoccata alla gigantesca e «doverosa» – parafrasando il mantra di  Di Pietro – indagine su Tangentopoli, che fruttò oltre 25.000 avvisi di garanzia, 4.000 arresti e migliaia di confessioni e condanne, abbattendo il sistema partitico nato nel dopoguerra, quella del magistrato morto a 89 anni nel 2019 parve come una condanna a ciò che ne seguì: una nuova era politica e amministrativa non certo migliore di quella sepolta dagli atti dell’inchiesta. Una Seconda Repubblica, in altre parole, difficilmente confutabili, in perfetta continuità con la Prima quanto a corruzione e illegalità sistemica.  E le cronache degli ultimi trent’anni sono lì a dimostrarlo.

 

Ma le parole di Borrelli, sospese tra sarcasmo e denuncia, suonarano a qualche orecchia come un segnale di “pentimento”, alimentando le ragioni del partito dei revisionisti cui gli iscritti non mancano mai. Al di là delle considerazioni sull’eredità politica e morale di Tangentopoli, delle valutazioni troppo volte interessate sul prima e sul dopo, esistono e resistono critiche attorno all’operato del pool e in particolar modo al metodo perseguito dai magistrati milanesi.

La carcerazione preventiva

 

Argomentate contestazioni, fatte proprie da autorevoli giuristi, sulle storture e gli eccessi procedurali dell’inchiesta che richiamano alla memoria espressioni come “il tinitinnare di manette” e “la giustizia a orologeria”, largamente utilizzate dai titolisti dell’epoca. Di cosa parliamo? Dell’abbondante ricorso alla carcerazione preventiva, come leva per ottenere, se non addirittura “estorcere”, la confessione dell’indagato. In buona sostanza, per i detrattori, l’impianto accusatorio poggiava su ammissioni di colpa degli inquisiti rilasciate  sotto evidente pressione psicologica. Della serie, “o fai i nomi  o resti dentro”.

 

Il rito ambrosiano

 

«Non vi è dubbio che la stagione di Mani Pulite ha acceso speranze in un cambio della politica  – scrive l’avvocato Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano, nella prefazione del libro di Mario Consani “Tangentopoli per chi non c’era” – in una vera lotta alla corruzione che aveva corroso nel profondo il sistema Paese. Ma non si possono dimenticare anche degenerazioni e errori compiuti in quel periodo. Da avvocato che ha seguito professionalmente molti processi di Mani Pulite mi sono chiesto più volte se in quella stagione si sia operato una sorta di “rito ambrosiano”, come qualcuno ha scritto, o se ci sia stata semplicemente, e giustamente, una severa, ma corretta, applicazione della legge. Credo che la risposta sia, come spesso accade, in una via di mezzo». «Un tema molto dibattuto – prosegue – è stato quello relativo all’ uso eccessivo della carcerazione preventiva; ci furono infatti molti arresti, non raramente senza che vi fossero i presupposti previsti dalla legge ma finalizzati a dichiarazioni accusatorie degli indagati, ancora oggi alcune vicende lasciano più di un dubbio».

 

La difesa

 

Dal canto suo, Antonio Di Pietro ha sempre risposto piccatamente, ricordando quei giorni di lavoro frenetico, giorno e notte, tra bilanci da analizzare, verbali da stendere  e code di imprenditori impalliditi fuori dal suo ufficio pronti a confessare per la paura di finire a San Vittore: «La carcerazione preventiva? Era l’unico modo che avevamo per fare in modo che gli indagati non inquinassero o nascondessero le prove, facendo sparire i documenti scottanti».

 

Il complotto

 

Come in ogni grande inchiesta che si rispetti, non può mancare la teoria del complotto denunciata a gran voce ancora oggi da tanti ex socialisti e non solo. Il Psi, il partito più colpito dalla tempesta giudiziaria – una tempesta “perfetta” secondo questa tesi –  come primo obiettivo dei magistrati milanesi in quanto centro di potere e cardine, insieme alla Democrazia Cristiana, travolta anch’essa da Tangentopoli,  del sistema pentapartitico da abbattere per vie legali. Risparmiando, allo stesso tempo, dalla scure orizzontale degli avvisi di garanzia l’ex Pci che pur ha avuto i suoi scandali. Un “colpo di stato” in piena regola, dunque, contro la democrazia italiana e le sue regole d’ingaggio, disfunzionali a medio-lungo termine (si pensi agli effetti sul debito pubblico della corruzione e del sistema di finanziamento dei partiti) ma garanti di un equilibrio socio-economico basato sulla permanenza nel patto Atlantico e sull’adesione ai valori “occidentali”.

 

Due pesi, due misure

 

Nel memoriale scritto nel 1999 da Hammamet, Bettino Craxi, l’ex segretario del Psi, “vittima” per antonomasia  di Mani Pulite,  riflette in questi termini sul sistema di finanziamento illecito ai partiti da parte dei cartelli di imprese e consorzi compiacenti. «Nessuno lo imprediva, nessuno poteva impedirlo, nessuno ha denunciato un caso nel quale a un magistrato è stato impedito di compiere il dovere che la legge gli avrebbe imposto di compiere. Nessuno protestò e picchiò i pugni sul tavolo sino a farsi sentire. Ciò che è singolare invece è che improvvisamente, in  forme violente e discriminatorie si siano scoperchiate parti significative del sistema di finanziamento illegale dei partiti e delle attività politiche e si sia iniziato un processo di criminalizzazione con ritmi crescenti, seguendo cadenza proprie di una orologeria politica, con un particolare accanimento diretto soprattutto e in primo luogo verso alcune direzioni, mentre ad altre veniva riservato un trattamento ben diverso e molte cose venivano sottaciute, o addirittura sfacciatamente oscurare e protette». Due pesi e due misure, detta in parole più semplici,  nel tormentone mai fuori moda sulle “toghe rosse”, spietate o benevole a seconda che di mezzo ci siano i partiti di sinistra.

Mani pulite, dalla Cia alla caduta del Muro di Berlino: tutte le teorie del complotto

di Fabio Lombardi

Era il 17 febbraio 1992. Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, veniva arrestato su richiesta del Pm Antonio D Pietro. L’arresto di quello che Bettino Craxi si affretto a definire “un mariuolo” era invece l’inizio di una vicenda (Tangentopoli) destinata a cambiare il volto della politica italiana con la caduta della Prima Repubblica e la cancellazione di storici partiti (il Psi e la Dc in primis).

 

Ma quella che fu vissuta come l’età del riscatto del popolo italiano contro la politica corrotta è stata, come spesso capita agli eventi storici, poi rivisitata e ha dato vita a diverse tesi complottiste che hanno voluto individuare (vero a falso che sia) la mano di forze occulte dietro l’azione del pool di Mani Pulite.

Il contesto storico

 

Per approcciare le teorie del complotto è necessario ricostruire lo scenario politico internazionale degli anni in cui si colloca Mani Pulite. A metà anni ’80 l’avvento di Michail Gorbacev alla guida del Pcus (il Partito comunista sovietico) segna l’inizio della Glasnost (letteralmente “Trasparenza”) un’azione politica che porterà alla dissoluzione del Urss (Unione sovietica) e alla democratizzazione dei Paesi dell’ex blocco sovietico. Un cambiamento che raggiungerà il suo culmine nel novembre del 1989 con la caduta del Muro di Berlino. Un cambiamento epocale destinato ad avere ripercussione su scala globale scardinando un equilibrio fra blocco occidentale (Usa e Nato) da una parte e blocco sovietico dall’altra ponendo fine a quasi 50 anni di Guerra Fredda. Lo stesso Gherardo Colombo ha ammesso che senza la caduta del Muro di Berlino, con il pericolo di un affermazione del Comunismo e di rivolte comuniste, Mani Pulite non avrebbe mai potuto nascere.

 

Un cambiamento destinato a trasformare anche il più grande Partito comunista d’occidente, quello italiano, che davanti a una tale “rivoluzione” sarebbe stato destinato alla dissoluzione se non avesse saputo cambiare pelle (come poi ha fatto) giungendo sino ai giorni nostri come Pd.

 

Le dichiarazioni di Bartholomew

 

I più ferventi complottisti partono dalle dichiarazioni fatte da Reginald Bartholomew, ambasciatore degli Stati Uniti in Italia dal 1993 al 1997 sotto la presidenza di Bill Clinton. «Quella era la stagione di Mani Pulite – racconta l’ex ambasciatore in un’intervista del 2012 a La Stampa – un pool di magistrati di Milano che nell’intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia». «La classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità di un alleato strategico nel bel mezzo del Mediterraneo».

 

Qualcosa, aggiunge, nel consolato a Milano «non quadrava». L’ex ambasciatore a quel punto “rivendica il merito di aver rimesso sui binari della politica il rapporto fra Washington e l’Italia”. In che modo? Pose fine a quello strano legame diretto che si era creato tra il Consolato e il pool di Mani pulite – tollerato dal suo predecessore Peter Secchia – e riportò la gestione dei rapporti a Roma, all’ambasciata. Anche l’ex ministro socialista Rino Formica aveva precedentemente parlato del ruolo che avrebbe giocato l’Fbi nella vicenda di Mani pulite.

 

Bartholomew racconta che fece venire a Villa Taverna (sede dell’ambasciata Usa a Roma) il giudice della Corte Suprema americana Antonino Scalia, approfittando di una sua visita in Italia. Gli fece incontrare «sette importanti giudici italiani» e li spinse a confrontarsi sui metodi usati dalla Procura di Milano. «Nessuno obiettò quando Scalia disse che il comportamento di Mani pulite con la detenzione preventiva violava i diritti basilari degli imputati», andando contro i «principi cardine del diritto anglosassone».

 

Il racconto poi vira sui nuovi interlocutori politici degli Usa dopo il disfacimento della vecchia classe politica: D’Alema, Fini e, inevitabilmente, Berlusconi. Il Cavaliere si presentò accompagnato da Letta e “voleva il mio imprimatur per la sua entrata in politica”. C’è anche un curioso aneddoto su Prodi, che si offese a morte per non essere stato ricevuto alla Casa Bianca dopo il suo ingresso a Palazzo Chigi nel 1996.

 

Bartholomew inserisce in questo contesto anche l’avviso di garanzia a Berlusconi recapitato nel corso del G7 del 1994, che metteva in difficoltà anche l’amministrazione Usa che sarebbero stati interessati dal grande piano di privatizzazioni che in quegli anni l’Italia stava portando avanti un po’ per le mutate condizioni politiche, un po’ per la necessità di far quadrare i bilanci dello Stato.

 

Cirino Pomicino

 

Affermazioni in seguito alle quali l’ex esponente di spicco della Dc, Cirino Pomicino, rilasciò dichiarazioni (sempre a La Stampa) sul presunto ruolo della Cia nelle vicende di mani pulite. «E’ quanto ho scritto nei miei libri. Quando l’ex console americano a Milano Semler dice che era informato già alla fine del ‘91 di come sarebbero andate le cose, per me torna tutto. C’è un episodio rivelatore: nella primavera di quell’anno mi venne a trovare Carlo De Benedetti e mi disse che assieme ad alcuni suoi amici imprenditori voleva dare vita a un nuovo progetto politico. Mi chiese se avessi voluto diventare il “suo ministro”. Mi misi a ridere. Pochi mesi dopo però capii che non scherzava affatto. E’ dalla primavera del ‘91, metabolizzata la caduta del Muro, che si fa strada il disegno di cambiare la classe politica italiana. Sul versante italiano, chi si rifaceva al vecchio partito d’azione pensò che fosse giunto il momento di prendere la guida del Paese. Sul versante americano, cambiata l’Amministrazione, le strutture d’intelligence ritennero che gli italiani si erano spinti un po’ troppo in là. Non dimentichiamo che l’episodio di Sigonella era accaduto appena cinque anni prima. E gli americani, intendo gli uomini della loro intelligence, non se ne erano dimenticati».

 

«Ora ci arrivo. E’ storia, anche se poco nota da noi, che la Cia agli inizi degli Anni Novanta abbia avuto ordine di fare anche intelligence economica e di raccogliere informazioni sull’Europa corrotta. Ora, che in Italia ci fosse un sistema di finanziamento illecito ai partiti è noto oggi ed era noto allora. Io lo dissi pure in una riunione dei vertici della democrazia cristiana, che il finanziamento illecito era il nostro fianco scoperto. Ritengo che la Cia abbia raccolto informazioni e le abbia girate alla magistratura di Milano dove c’era un pm, ex poliziotto (qui Pomicino fa riferimento a Di Pietro ndr) che non andava troppo per il sottile».

Mani Pulite e il cinema, un’unica storia con diverse regie

di Enrico Fovanna

L’epopea di Tangentopoli non suscitò solo un enorme seguito sui media, per i continui colpi di scena e sviluppi nella realtà, ma ispirò anche pellicole su piccolo e grande schermo, con alterne fortune. Dalle fiction ai film, come per l’assedio di Troia o la Seconda Guerra mondiale, è stato un fiorire di ciak, spesso aderenti alla realtà, ma anche con parecchie concessioni alla fantasia. Quasi sempre, peraltro, più per ragioni di sceneggiatura che piegare a una tesi politica una stagione i cui contorni erano ormai stati ampiamente disvelati, seppur con diverse ottiche, da giornali e tg.

La prima ad aprire le danze, con acuta intuizione, fu Sky, con la serie intitolata semplicemente “1992”. Una ricca fiction che ha affrontato il momento chiave della nostra storia recente mescolando vicende di fantasia a precisi riferimenti alla cronaca, richiedendo tre anni di lavoro e decine di consulenze (non quella di Antonio Di Pietro, però, che ha preferito declinare).

 

La narrazione di 1993 si snoda attraverso le storie e vicissitudini di cinque personaggi principali: un reduce della guerra del Golfo diventato leghista, un’aspirante star, un agente di polizia giudiziaria, un pubblicitario dal passato misterioso, la figlia di un imprenditore suicida. Più i magistrati. Un affresco che parte. Come d’obbligo, dal 17 febbraio 1992, giorno dell’arresto di Mario Chiesa, il via all’inchiesta di Mani pulite, e che continua fino al 17 dicembre 1992, simbolica data d’inizio della seconda Repubblica.

 

A spiegare lo spirito della serie fu proprio lo stesso ideatore, Stefano Accorsi: «Non una fiction politica. L’attenzione si è concentrata piuttosto sull’atmosfera e lo spirito del 1992. Siamo lontani da qualunque dinamica di revisionismo, perché qui non si può dare una risposta morale. Si può solo dipingere la differenza tra l’entusiasmo e il senso di vertigine di quell’epoca e lo scoramento dei giorni nostri».

 

Sullo sfondo di 1992 si riavvolge il nastro dei mesi di Mani pulite con i suoi protagonisti (il pool dei magistrati milanesi, Giovanni Falcone, il leader referendario Mario Segni, Umberto Bossi e Marco Formentini, fino alla celebre “così fan tutti” pronunciato in Parlamento da Bettino Craxi), e si dipanano le storie di personaggi che a vario titolo cercano di volgere a proprio vantaggio il terremoto in corso.

 

Il pubblicitario Leonardo Notte (Stefano Accorsi, primo ideatore di 1992) è impegnato a far sì che i soldi facili degli Anni Ottanta proseguano nel decennio successivo; il poliziotto Luca (Domenico Diele) mosso da questioni molto private diventa il braccio destro di Di Pietro, la bella Veronica (Miriam Leone) vuole che l’amante imprenditore l’aiuti a diventare “come Lorella Cuccarini”, l’ex militare Pietro Bosco (Guido Caprino) scoprirà quanto il cinismo possa pagare più del senso del dovere.

 

La serie, che debuttò in contemporanea in altri quattro paesi, superò addirittura il successo iniziale di Gomorra, la cui prima puntata aveva raccolto un anno prima una media di 640.000 spettatori. La media d’ascolto dei due episodi di 1992 fu invece di 670.000 spettatori. Un successo tale da spingere Sky a replicare la serie due volte, aggiornando semplicemente i nuovi titoli in “1993” e “1994”. Nel primo proseguiva il racconto di uno scenario politico ed economico molto complesso , il secondo era incentrato sull’arrivo di Silvio Berlusconi a Palazzo Chigi.

 

Bisognerà attendere il 2004 per vedere un vero e proprio film. il documentario e inchiesta “Mani pulite” scritto e diretto dal giornalista vicedirettore del Tg5 Andrea Pamparana (che poi si difese dall’accusa di avere costruito a tesi una pellicola contro le toghe, nelle vesti di vicedirettore del Tg5, Mediaset, emittente berlusconiana). Il film afferma in buona sostanza che nelle inchieste di Tangentopoli la bilancia della giustizia pendeva a “sinistra”. Distribuito su dvd insieme al settimanale “Panorama”, soltanto in un secondo momento fu diffuso come home-video e film vero e proprio.

 

Un’altra pellicola a tema, incentrata solo in maniera tangenziale su tangentopoli, ma che attinge a piene mani dalla sorgente della vicenda, è “Hammamet”, di Gianni Amelio, uscita nel 2020 e incentrata sull’esilio del leader Psi in Tunisia. Il film racconta gli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi, interpretato da Pierfrancesco Favino. Nella sceneggiatura nessuno dei protagonisti o dei comprimari viene chiamato con il proprio vero nome, e la figura inventata di Fausto è un espediente narrativo voluto dal regista in funzione di “antagonista”

 

Se vogliamo spaziare anche nel campo delle pellicole ispirate, ma non interamente dedicate a Mani Pulite, è d’obbligo citarne alcune che ricostruiscono i suicidi eccellenti di Tangentopoli, come il pluripremiato film Il Divo di Paolo Sorrentino del 2008. Indimenticabile la scena in cui Eugenio Scalfari, direttore de La Repubblica, intervista un irritato Giulio Andreotti, il quale sembra non essere minimamente toccato dall’ondata di scandali e morti che stavano travolgendo il paese.

 

Anche Marco Bellocchio, nel suo film “Fai bei sogni”, tratto dal romanzo autobiografico del giornalista e scrittore Massimo Gramellini, ricostruisce la scena del suicidio di uno speculatore finanziario coinvolto nell’inchiesta di Mani Pulite. Lo stesso Gramellini seguì all’epoca i fatti di Tangentopoli come inviato da Montecitorio, a Roma.

 

Da citare anche i quattro capitoli del documentario “Mani Pulite” realizzati per la Rai nel 1997, a pochi anni di distanza dai fatti di cronaca, oggi disponibili anche  su YouTube: “Mariuoli a Milano”, sull’avvio dell’inchiesta e sulle ripercussione nella politica, “Gli uomini d’oro”, sullo scandalo Enimont, “I vicerè”, sulle propaggini dell’inchiesta nell’Italia Meridionale, e infine “Il duello”, sulla famosa scena della toga tolta dalle spalle durante le dimissioni di  Antonio Di Pietro, poche settimane dopo l’invito a comparire a Silvio Berlusconi per un’indagine sulle tangenti pagate da una sua società alla Guardia di Finanza.

Nando Dalla Chiesa: «C’era un volta un Paese corrotto… Ma Milano è cambiata»

di Andrea Gianni e Arnaldo Liguori

«Spiegare Tangentopoli ai giovani è come raccontare un pezzo della storia d’Italia: c’era una volta un Paese molto corrotto, dove l’onestà era la devianza». Il sociologo e professore dell’Università Statale di Milano Nando Dalla Chiesa ha vissuto quel “Paese corrotto” da protagonista. Nel 1985 – tre anni dopo l’omicidio del padre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, per mano di Cosa Nostra – fu tra i fondatori del movimento di opinione “Società civile”. Denunciava il malaffare nella “Milano da bere”, nel 1993 si candidò a sindaco di una città terremotata dalle inchieste e fu sconfitto al ballottaggio dal leghista Marco Formentini.

Che clima si respirava in quegli anni?

«Era come se una parte dell’opinione pubblica aspettasse solo di vedere colpiti i potenti e la classe dirigente. Non ci fu sconcerto, ma piuttosto un senso di liberazione. Dall’arresto di Mario Chiesa in avanti si respirava un’ostilità fortissima nei confronti del ceto politico soprattutto a Milano, capitale di Tangentopoli. C’era anche una certa dose di fanatismo. Gridare “Viva Di Pietro” era come purificarsi per quello che era stato fatto negli anni precedenti».

 

Che eredità lascia Tangentopoli?

«Resta la memoria e l’insegnamento, anche se la corruzione non è certo sconfitta. In questi anni l’amministrazione comunale di Milano ha attuato procedure virtuose, è determinata a riconoscere la presenza della mafia in città e si è dotata di strumenti, non solo simbolici, per combatterla».

 

Alle inchieste sono legate anche tragedie personali e umane. Lei in quegli anni pubblicò uno studio sui suicidi, dentro e fuori dal carcere.

«All’epoca ero deputato, e mi aveva colpito il fenomeno dei suicidi giudiziari, che avvenivano non tanto dentro il carcere ma fuori, spesso quando l’imputato era già stato prosciolto. Più che un effetto delle inchieste è un fenomeno connesso al clima generale che si respirava all’epoca».

La versione di Pillitteri, ex sindaco di Milano condannato dal pool di Mani Pulite

di Andrea Gianni e Arnaldo Liguori

Battino Craxi? «Un capro espiatorio». I magistrati del pool «li vedevo avanzare in Galleria Vittorio Emanuele e mi facevano ridere, non volevano colpire i corrotti ma addirittura sconfiggere la corruzione». I politici di oggi? «Per lo più personaggi molto modesti». Paolo Pillitteri superato il giro di boa degli 81 anni guarda all’Italia a cavallo fra gli anni ’80 e ’90, terremotata da Tangentopoli, fino al presente. Socialista e cognato di Craxi, sindaco di Milano dal 1986 al 1992, dell’epoca di Mani pulite conserva anche una condanna per ricettazione.

Dalla conquista del potere alla fuga ad Hammamet, che cosa rimane della figura di Craxi?
«Craxi era un milanese doc, che ha reso grande la nostra città senza essere mai campanilista. A soli 22 anni entrò in Consiglio comunale, più tardi divenne assessore all’Economato. Io all’epoca facevo cinema. A presentarmi Craxi fu Tognoli (sindaco di Milano dal 1976 al 1986, ndr), che mi accompagnò nel suo ufficio. Uscì Craxi, un omone, e mi disse: “Ma fu cosa stai facendo”? Io, mostrando la cinepresa, ho risposto che per me il cinema è tutto. Lui rispose: “Voi non capite un c…La politica è tutto”. Così nacque la mia conoscenza con lui, un uomo spiccio e di poche parole. Un grande politico».

 

Un politico divenuto il simbolo negativo, per le sue vicende giudiziarie, di  Tangentopoli.
«E’ evidente che volevano farlo fuori. La Democrazia cristiana aveva meno colpe? I comunisti non prendevano tangenti? La mancata difesa di Craxi fu fatale, perché i partiti non difesero la loro storia. Fu fatta fuori la classe politica che aveva tirato su il Paese dal dopoguerra».

 

Molti imprenditori sostenevano che la corruzione era quasi un fatto ineluttabile. Verità o autoassoluzione?
«Il rapporto fra politici e imprenditori era autonomo. Poi capitava che un imprenditore desse una mano a un politico amico per la campagna elettorale, ma succede anche adesso. Questa visione nacque in seguito all’inchiesta, non prima. Gli imprenditori cercarono di scaricare la responsabilità per non andare in carcere. Anche perché la tecnica di Di Pietro, ingiusta e perversa, era: “Ti sbatto in carcere e quando parli ti faccio uscire”».

 

Nel suo caso pesò di più la condanna o il giudizio dell’opinione pubblica?
«Le cose erano inscindibili, non per niente si parò di meccanismo mediatico-giudiziario. I partiti non erano molto amati, e i mass media si buttarono contro di loro. C’era molto qualunquismo».

 

Come giudica l’operato dei magistrati?
«Una persona onesta come Gherardo Colombo ammette che da allora non è cambiato niente. Io vorrei incontrarlo e chiedergli: “Ma allora perché lo avete fatto?”. Una cosa è cambiata, la Prima Repubblica è stata cancellata. Sulla corruzione in effetti non è cambiato niente anche se i magistrati del pool pretendevano di sconfiggerla, invece di limitarsi a colpire i corrotti. Dove c’è potere, ci sarà sempre la corruzione. Su Mani pulite ho scritto anche un musical. In un passaggio entra Borrelli e dice a Colombo, citando una vecchia canzone, “Vola, colombo bianco vola…”. E lui ritorna con la preda tra le zampe. L’ironia apre tutte le porte».

 

E la classe politica di oggi?
«E’ molto modesta. Mi chiedo come abbia fatto un partito come quello di Grillo a essere il primo in Italia. Quando la politica è così malridotta scatta il potere dei Tribunali. Anche Berlusconi si è trovato nudo di fronte allo strapotere giudiziario, è stato eliminato dalla magistratura».

Quando Il Giorno per primo denunciò Tangentopoli

di Nino Leoni

Non molti sanno che a dare il via alle indagini di Antonio Di Pietro su Mani Pulite fu un articolo de Il Giorno del 1990, a firma del cronista giudiziario Nino Leoni. Il giornalista aveva denunciato un presunto “racket del caro estinto” al Pio Albergo Trivulzio. Leoni venne poi querelato per diffamazione e il fascicolo arrivò proprio sulla scrivania di Di Pietro. Il pubblico ministero archivierà la denuncia ma, fiutando reati contro la pubblica amministrazione, si metterà ad indagare sul Trivulzio. Il resto è storia.

 

Di seguito, pubblichiamo il famoso articolo di Nino Leoni, pubblicato sulle pagine de Il Giorno il 9 giugno 1990.

Una denuncia mette in luce strani traffici

Racket del caro estinto con subappalto salme a centomila lire l’una

Sotto accusa pompe funebri e un ricovero per anziani

 

Torna il racket del caro estinto con centomila lire a salma, per il subappalto dei servizi funebri che gli permettevano per due giorni al mese l’accesso alla Baggina. Poi stanco di pagare la tangente il titolare della «Magenta sas» con sede in via Mario Pagano 50, assistito dall’avvocato Luciano Di Pardo, ha inviato alla procura della Repubblica una denuncia nei confronti del proprietario della Varesina di viale Certosa 314 e della Sofam di via Sforza 46.

 

Nell’occhio del ciclone, Franco Restelli, socio accomandatario della Magenta ha coinvolto anche il consiglio di amministrazione del Pio Albergo Trivulzio chiamandolo in causa perché non avrebbe avuto il diritto di stipulare convenzioni con imprese private di pompe funebri, andando contro lo spirito della legge che impone soltanto ai Comuni l’esclusiva di tali servizi.

 

A questo proposito, sta scritto nella denuncia, il Tar si è più volte pronunciato in tal senso, su ricorso di privati cittadini o di assistenti sociali al corrente di tali vicende, per l’illegittimità delle convenzioni. E, secondo Restelli, i responsabili del Pio Albergo Trivulzio avrebbero più volte violato le decisioni del Tar, della Regione Lombardia e anche del Consiglio di Stato, continuando a stipulare convenzioni, l’ultima delle quali è stata approvata con delibera del 27 ottobre scorso. Per il denunciante, l’ente Pio Albergo Trivulzio non è stato abilitato a gestire i servizi funebri per i decessi che avvengono all’interno dello stesso istituto.

 

Ne consegue che la convenzione stipulata con la Sofam e altre quattro società è stata adottata dall’Ente in pieno contrasto con il regolamento di polizia mortuaria. Nella denuncia contro Mario Sciannameo, responsabile della Varesina e della Sofam, l’avvocato Di Pardo chiede che il suo assistito sia risarcito per inadempienza contrattuale del notevole danno materiale subito. I rapporti di affari tra la Magenta di Restelli e la Varesina di Sciannameo, cominciano nel luglio di due anni fa: il primo ottiene dal secondo il subappalto alla Baggina per due giorni al mese versandogli 1.440.000 lire all’anno per i servizi funebri e 880.000 per spese di pubblicità. Restelli inoltre gli consegna altre somme (100.00 lire a salma): Sciannameo giustifica questo ulteriore pagamento perché, a suo dire, servono come regalia a qualcuno che li aveva favoriti. Sul tavolo del giudice sono finite anche le ricevute bancarie di assegni che Restelli aveva pagato a Sciannameo.

 

In seguito tuttavia, la Varesina è esclusa dall’appalto dei servizi funebri dell’Ente, ma Sciannameo si ripresenta con la Sofam e stavolta «vince» con altre ditte per il triennio 1990-1992. Il legale, citando il responsabile delle due imprese di pompe funebri, chiede che la Sofam venga condannata per inadempienza contrattuale e che in istruttoria sia ordinato alla ditta di esibire il documento della convenzione stipulata il 27 ottobre scorso con l’Ente.