di Valerio Baroncini
Do not go gentle into that good night,
Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.
Dylan Thomas
«Non andartene docile in quella buona notte, I vecchi dovrebbero bruciare e delirare quando cade il giorno; Infuria, infuria, contro il morire della luce». 20 maggio 2012, ore 4.03, magnitudo 5.9: la prima scossa, epicentro Finale Emilia. Poi 29 maggio, ore 9, magnitudo 5.8, epicentro fra Medolla e Mirandola. Il tempo lenisce le ferite. Non cancella però il peso di chi o cosa non c’è più: le vittime, la storia, i monumenti sbriciolati, i piccoli oggetti rimasti sepolti sotto le macerie, le case (e pure le cose) di una vita. Dieci anni dopo, cosa resta del terremoto dell’Emilia? O, meglio, cosa non resta di quei giorni disperati?
La poesia di Dylan Thomas, composta svariati decenni prima, sembra essere scritta apposta. Tutti ricordiamo dov’eravamo quella notte. Di ritorno da una serata. Oppure a casa, con famiglia e figli. O ancora al lavoro, sorpresi da una natura che ci fa capire quanto spesso dimentichiamo di essere piccoli. E impotenti.
La prima scossa ricordiamo, soprattutto. Arrivata di notte: Do not go gentle into that good night, Non andartene docile in quella buona notte. Una metafora per disegnare la notte come morte, la luce del giorno come vita. E l’uomo, nelle sue sfaccettature, nudo davanti a esse: i saggi, che hanno consapevolezza dell’inevitabilità della propria fine; gli onesti, che al calare del giorno si infuriano perché con più tempo avrebbero compiuto azioni memorabili; gli impulsivi, che si accorgono troppo tardi di aver sprecato la loro vita; gli austeri che, privati di ogni soddisfazione, si infuriano per le occasioni perse. Se ci guardiamo dentro, siamo in queste categorie.
Ma siamo soprattutto emiliani. Gente pratica, che si rimbocca le mani. Perché il sisma avrà distrutto capannoni ed edifici, ma la forza di volontà ha fatto rialzare in pochissimo tempo una regione. Vi racconteremo cosa non c’è più, ma anche quello che è rinato. E migliorato. Infuria, infuria, contro il morire della luce.
di Valerio Baroncini
«Un terremoto industriale», perché il mondo del lavoro pagò un prezzo altissimo. Ma soprattutto «un terremoto devastante, con una quantità di danni oltre i 14 miliardi di euro, il secondo più pesante della storia del Paese dopo il sisma dell’Irpinia del 1980». Il presidente dell’Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, non ha dubbi: «Furono due scosse pesantissime, di pari intensità, una cosa che non avviene quasi mai».
Governatore Bonaccini, cosa accadde in quei giorni e cosa accade ora?
«C’erano oltre 40mila sfollati, dopo 10 anni il 95% di ciò che era crollato o inagibile è stato ricostruito. Quello che manca attiene a luoghi come chiese, monumenti, rocche, castelli, centri storici, beni sottoposti al vincolo della Soprintendenza e che dunque meritano anche maggiori progettazione e cura».
Anche il cratere è ridotto drasticamente.
«Dei 59 comuni che facevano parte del cratere, oggi 44 hanno completato tutta la ricostruzione pubblica e privata; negli altri si va verso il completamento definitivo. Come l’ha definita il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la ricostruzione sarà ricordata come esemplare in questo Paese».
Come decideste di agire?
«Si puntò su tre cose. La casa: c’era bisogno di dare risposta prima possibile a chi non aveva un tetto, anche se non ci fu nemmeno una famiglia che trascorse l’inverno in tenda. Poi il lavoro: è stato un ‘terremoto industriale’, mai prima d’allora in Italia vennero colpiti così tante fabbriche, capannoni, industrie, attività artigianali. Senza lavoro si rischiava la delocalizzazione delle attività. Dunque, serviva un intervento immediato».
E il terzo punto?
«I bambini, la nostra scommessa sul futuro, fu fatto un lavoro straordinario. Sono state recuperate oltre 530 scuole, delle quali un centinaio ricostruite completamente: nessuno studente ha perso l’anno scolastico, è stato un grande lavoro che ha permesso di difendere il tema educativo».
A Pieve di Cento, ad esempio, le scuole…
«Si sono trasformate, con un intervento molto bello: dove c’era la scuola, oggi c’è un centro culturale con biblioteca e pinacoteca, un luogo di incontro e socializzazione. Si è agito affinché si ricostruisse nel miglior modo possibile: oggi abbiamo edifici più belli, moderni e sicuri».
Cosa ricorda della prima scossa?
«Ricordo perfettamente quella notte, il 20 maggio. Erano le 4.03, la scossa mi svegliò, la prima cosa fu scendere a terra: abito al primo piano e guardai da fuori la palazzina con la mia famiglia e i genitori. Ero memore da bambino della scossa del Friuli e dell’Irpinia. Si avvertirono anche a Campogalliano, il mio paese. Credevo quindi che il terremoto fosse capitato altrove. Poi risalii in casa, guardai lo smartphone, il sito dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia e scoprii che l’epicentro era Finale Emilia. Chiamai l’allora sindaco di Finale, saranno state le 4.20. Mi disse che era in mezzo alla strada. Era tutto buio e polveroso era crollato il centro storico».
Come si sentì?
«Mi lasciò attonito. Il giorno dopo da consigliere regionale andai nei luoghi del terremoto. Quando son diventato presidente, a fine 2014, ho trovato il lavoro impostato in maniera ottima dal presidente Vasco Errani e dalla giunta precedente. C’è stato un sistema corale che ci ha permesso di prendere in mano quella situazione, ereditando anche il ruolo di commissario straordinario alla ricostruzione: era la prima volta che a un presidente di regione (Errani poi io) veniva dato in gestione questo tema».
Fu una scelta corretta?
«Fu una responsabilità forte, ma giusta, chi meglio di noi poteva conoscere le esigenze dei cittadini? Subcommissari furono nominati i sindaci, ancora oggi i primi cittadini rimasti nel cratere ogni mese fanno un incontro, facendo il punto sulle cose che funzionano e quelle da correggere. Dopo il terremoto, noi emiliani abbiamo dimostrato che quando ci mettiamo d’impegno dimostriamo di essere capaci».
di Stefano Marchetti
Di quella notte ricordo il rumore. Profondo, sordo, misterioso. E poi il silenzio. Infinito, devastante. Il rombo feroce della terra, il fragore tutt’intorno, le pietre delle case e delle chiese che precipitavano, i libri che cadevano dagli scaffali, i bicchieri di cristallo che si infrangevano sul pavimento. Sono nato a Finale Emilia, ci abito da sempre, e mai avrei potuto anche soltanto immaginare che la mia cittadina, gioiello degli Estensi che qui arrivavano in barca da Ferrara, un giorno sarebbe diventata l’epicentro di un terremoto devastante. La notte di domenica 20 maggio 2012. Dieci anni fa.
Già all’una era arrivata una prima fulminea scossa a darci un brivido. Mia madre si era svegliata di soprassalto, aveva paura, mi aveva chiesto di starle accanto. Mi ero tornato a coricare con il cuore in gola e quasi con un presentimento. Il finimondo si è scatenato alle 4, in un minuto d’inferno. La casa era come una scatola di caramelle nelle mani di un bambino capriccioso, pareti, pavimento, soffitto, una centrifuga impazzita. “Tienimi stretta”, mi ha implorato la mamma.
Ci siamo abbracciati sul letto, ho chiuso gli occhi e per un attimo fuggente ho pensato – sì – che non ci sarebbe stato un domani. Poi la furia della terra si è placata un momento. Non c’era tempo da perdere, “Dai, andiamo”. Ho preso per mano la mamma e al buio, camminando a tentoni, su cocci di vetro e sedie ribaltate, abbiamo raggiunto le scale. Le ho illuminate con la torcia del telefono, e in un lampo siamo usciti di casa: la panchina di una pizzeria, trascinata in mezzo alla piazza, è diventata il nostro rifugio. La terra continuava a tremare. E noi tremavamo più di lei.
In quella notte tutta la bellezza del paese antico si è sbriciolata. La torre dell’orologio, che aveva ottocento anni, è crollata per metà, divisa in due come se il tempo si fosse spezzato, poi nel pomeriggio un’altra scossa le ha dato il colpo di grazia. Il mastio del castello estense è venuto giù, neppure le bombe della guerra lo avevano scalfito. Nel settecentesco Palazzo del Comune, con la torretta della campana civica, soltanto la statua di San Zenone è rimasta al suo posto. E tutte le chiese, gioielli di barocco e di storia, sono state martoriate.
All’alba di quella domenica c’erano solo pietre, polvere, dolore, incubo. Da quella notte sono venuti altri giorni duri di scosse, di lontananza e di paura. E sono sbocciati anche tanti fiori di solidarietà, vicinanza, abbracci spontanei. Volontari da tutta Italia hanno raccolto, una per una, le pietre della torre, un’associazione piemontese ne ha rimesso in funzione l’orologio, gli Alpini hanno ricostruito la scuola di musica. Ma – lungo le settimane, i mesi, gli anni – abbiamo dovuto affrontare una faticosa ricostruzione a ostacoli, fra burocrazia, incartamenti e tante spese.
A Finale oggi molte abitazioni private sono rinate: su 821 cantieri aperti dopo il sisma, più di 700 sono stati già conclusi. Sono stati concessi più di 250 milioni di contributi. Ci sono state demolizioni, è andata giù anche la dépendance della scuola media che aveva sì e no quarant’anni, e vari edifici hanno ritrovato luce e colore. È ricomparsa perfino la meridiana sullo storico Palazzo della Guardia. E tuttavia, se venite a fare un giro, quasi tutti i monumenti vi raccontano ancora quella notte di dieci anni fa: della torre dei Modenesi, quella dell’orologio diviso in due, è rimasto semplicemente il moncone, solitario e quasi dimenticato sotto una specie di tettoia, e fra le rovine del castello Estense, un tempo bellissimo, crescono le erbacce. Il teatro Sociale è ancora chiuso, muto, in attesa che qualcuno riporti vita sul suo palcoscenico, e il palazzo del Comune (dove l’orologio è da tempo congelato alle 3 e 26) è ingabbiato da transenne, così come la deliziosa chiesa del Rosario, perla preziosa del barocco, amatissima dagli sposi per la sua eleganza. Chiusa, sbarrata, come la chiesa della Buona Morte o quella di San Francesco, e quella del Cimitero, dove ogni tanto una tenda svolazza nell’abside squarciata.
Da più di due anni si lavora in Duomo e si confida di riaprirlo in settembre, per la festa della Beata Vergine delle Grazie, compatrona della cittadina: almeno quello è un segno di speranza. È vero: c’è una moderna e grande biblioteca, un po’ in periferia, a due passi dalle scuole, e quella che era la stazione delle autocorriere si rimette in moto proprio in questi giorni come luogo di aggregazione e di inclusione, grazie alla musica e all’energia dei Rulli Frulli. Però in centro la vita fatica ancora a ripartire.
Prima o poi le ferite delle pietre si possono rimarginare, ma le ferite del cuore, quelle non le guarisce nessuno. E, oggi più che allora, sento che c’è un terremoto ‘fuori’, quello che ti circonda, nelle case, nelle pietre del paese in cui vivi, e c’è un terremoto ‘dentro’, che continua a bussare in te, ti accompagna, ti ricorda chi non c’è più. E non bastano dieci anni per mandarlo via.
di Valerio Baroncini
«Il tempo bloccato, come un pugno allo stomaco, lì in piazza a Crevalcore: il terremoto ha cristallizzato il terrore nell’orologio di Porta Modena. A terra la croce del campanile, sindone di una notte di paura».
Iniziava così la cronaca del Carlino del 21 maggio 2012, il giorno dopo la prima scossa. Migliaia di sfollati, centinaia di edifici danneggiati, chiese inagibili, castelli sbriciolati, scuole lesionate. E Crevalcore, soprattutto durante la prima scossa, ha pagato il prezzo più alto di tutta la provincia. «Abbiamo avuto 983 alloggi inagibili, per un comune come Crevalcore è un dato importante – ragiona il sindaco Marco Martelli –. Abbiamo emesso 483 pratiche per la ricostruzione di edifici dei privati: di questi 401 sono già completati, 31 in corso di elaborazione. È un numero rilevante: sono stati impegnati 171 milioni di euro, 159 già erogati, il 94% del totale. Possiamo dunque dire che la ricostruzione privata è in via di conclusione».
Per Martelli un nodo ancora aperto è quello dei beni pubblici: «Abbiamo già investito 18,5 milioni di euro, rendendo agibili nei primi tre anni tutte le scuole». I cantieri aperti più grandi sono due: «Municipio e teatro. Due cantieri che stanno soffrendo la situazione attuale: come tutti sappiamo c’è stato un aumento dei costi delle materie prime, anche le imprese sono in attesa di capire come evolverà la situazione. Quando hanno partecipato al bando avevano costi molto diversi. Usciremo a breve anche con la gara della Villa dei Ronchi; poi rimane Porta Modena, entrata parte ovest del paese, che dovrà essere recuperata, oltre a interventi sulla torre campanaria e sulle frazioni, come a Palata Pepoli».
Claudio Broglia era il primo cittadino nei giorni del sisma e, da parlamentare, ha contribuito a scrivere le regole della ricostruzione: «Mi ricordo la sveglia di soprassalto alla prima scossa, la casa che scricchiola. Penso a un sisma in Umbria o Friuli… poi capisco che siamo noi l’epicentro». A quel punto Broglia si attiva per chiudere il centro, era tutto a rischio crollo. Ma nove giorni dopo il terremoto non fa sconti. E replica: «Ero alle scuole elementari a Palata Pepoli a spiegare cos’era il terremoto. A un certo punto arrivarono come tre onde che hanno solcato alberi e quant’altro. Un’altra scossa».
Il simulatore della protezione civile aveva ipotizzato fino a 4mila morti con un terremoto così devastante. E invece i morti furono 28: «Un miracolo: tanta gente ha rischiato grosso, c’era chi era seduto al bar ed è stato sfiorato da comignolo». Poi, continua Broglia, ecco l’emergenza abitativa e, a Natale, una parziale riapertura del centro: «Un risultato immenso di cui ringrazio il compianto cardinale Carlo Caffarra, la mia giunta, la maggioranza e anche la minoranza. Abbiamo tenuto unita la comunità».
di Valerio Baroncini
Luca Borsari è il nuovo sindaco di Pieve di Cento: già nella squadra dell’ex primo cittadino Sergio Maccagnani, è uno dei protagonisti della ricostruzione emiliana. E, davanti al complesso delle Scuole, traccia un bilancio dell’attività: «Tanto è stato fatto a Pieve di Cento, dal 2012, essere qui è simbolico. Qui è concentrata una progettualità nuova – dice Borsari –: ricostruire e immaginare un futuro per la comunità. Per noi ricostruzione aveva una sola rima: Pieve più bella di prima. E così è avvenuto grazie al mio predecessore Sergio Maccagnani, alla Regione, al dialogo tra istituzioni, uffici e volontari. La seconda scossa del 29 maggio per noi fu davvero tremenda: pensate alle immagini della Collegiata, con la cupola crollata». E ora ricostruita.
La ristrutturazione della chiesa è costata 3,2 milioni di euro, fondi finanziati dalla Regione. Con i suoi interni di epoca barocca, oggi la Collegiata vede anche il ritorno dei quadri salvati dal sisma, assieme al Crocefisso ligneo del 1300. Questi tesori artistici sono stati conservati nel periodo del restauro nel Museo Magi ‘900. Si tratta di veri capolavori, realizzati da grandi artisti del ‘600: da Guercino a Guido Reni, da Lavinia Fontana a Scarsellino e altri ancora.
Così come le Scuole, dicevamo: la nuova biblioteca-pinacoteca della città. L’edificio, che ospitava la Scuola primaria De Amicis ed era stato danneggiato dal sisma del 2012, è stato ristrutturato e riportato a nuova vita, cambiando la sua destinazione d’uso per accogliere i libri e le opere d’arte che appartengono all’intera comunità. «Ci furono tanti danni, soprattutto al patrimonio pubblico – va avanti Borsari –: chiese, musei, teatro, palazzo municipale, ex scuole. La Chiesa dei Santi Rocco e Sebastiano ad esempio, di proprietà della Curia e molto cara ai pievesi, è fra gli edifici danneggiati pesantemente dalla seconda scossa ed è stata inserita nel piano ricostruzione».
Il 29 maggio si terranno le celebrazioni per ricordare il sisma, ma soprattutto per fare il punto su ciò che è stato fatto: «Abbiamo aderito con entusiasmo all’iniziativa della Regione di celebrare il decennale. Per noi rappresenta un momento dove ringraziare tutti quelli che hanno reso possibile questa impresa, e poi anche per avere un momento di riflessione – chiude Borsari –. Memoria, gratitudine, analisi, sguardo verso il futuro: il momento che stiamo vivendo adesso con la guerra sta arrivando su Comuni, imprese, territori, amministrazioni. Dobbiamo essere compatti, oggi come allora».
di Valerio Franzoni
Persone che corrono in strada, nelle piazze, nei cortili delle loro abitazione. Con addosso il primo indumento raccattato al volo prima di uscire dalla porta, e gli occhi increduli, spaventati a cercare conforto nei propri familiari, amici, quando ancora il sole doveva levarsi in cielo ed illuminare la più terribile delle giornate.
È questo il ricordo che nessuno mai riuscirà a cancellare di quanto avvenuto alle 4.04 del mattino del 20 maggio di dieci anni fa, quando una violenta scossa di terremoto ha colpito l’Alto Ferrarese, portando con sé distruzione e morte. E a diventare uno dei più terribili simboli di quel giorno è stata la chiesa crollata della frazione centese di Buonacompra, le cui macerie hanno invaso la strada provinciale che fende in due il centro del paese, e quel campanile spezzato, ma ancora in piedi che incombeva sul sagrato. Ma non è stato l’unico monumento, luogo sacro, palazzo storico, azienda o casa che hanno subìto pesantissimi danni a causa di quella scossa, a cui ne sono seguite altre meno violente nella magnitudo, ma altrettanto spaventose.
La terra ha ribollito, tremato per tutta la giornata. Ma, eppure, nessuno aveva voglia di rimanere con le mani in mano. La solidarietà, la vicinanza alle persone più deboli, a chi non poteva ritornare nella propria abitazione perché danneggiata è stata una delle più straordinarie risposte al dramma. Sale polivalenti trasformate in punti di accoglienza, l’allestimento nel giro di pochi giorni da parte della Protezione civile di una distesa di tende sul campo di atletica di Cento per dare ospitalità a chi aveva perso tutto o quasi, forze dell’ordine, sanitari, vigili del fuoco, amministratori comunali, parrocchie e associazioni al lavoro da subito per dare una risposta tempestiva: così il territorio si è immediatamente rimboccato le maniche e ha reagito, con tutte le proprie energie.
Sia il 20 maggio, sia il 29 maggio 2012, quando il terremoto ha colpito nuovamente, mietendo ancora terrore e vittime. Alla fine, a seguito del sisma e delle sue conseguenze, si conteranno sette vittime nel Ferrarese. Negli anni, passo dopo passo, è stato percorso il cammino verso il ritorno alla normalità, attraverso la ricostruzione.
Nel Centese, sono state recuperate quasi tutte le chiese della città e delle frazioni, via via abbandonando le tensostrutture che erano state utilizzate per le celebrazioni; sono stati ripristinati tutti i cimiteri; sono stati completati i lavori su Palazzo del Governatore, sulla caserma dei Vigili del fuoco, sul magazzino dei carri allegorici per fare alcuni esempi; sono nate nuove scuole (a Corporeno, nel quartiere di Penzale, Dodici Morelli e Reno Centese), è stata realizzata dagli Alpini la nuova materna di Casumaro, e hanno riaperto le porte le scuole ‘Pascoli’ accanto alla Rocca. Sono stati avviati i cantieri per il recupero della Pinacoteca civica, ‘casa’ del Guercino.
Inoltre, sono alle fasi progettuali, con diversi stadi di avanzamento, gli interventi per restituire alla comunità il Teatro ‘Borgatti’ (presso il quale è stato recentemente effettuato un sopralluogo da parte dei componenti del Consiglio comunale, guidati dal sindaco Edoardo Accorsi), il Municipio storico che si affaccia su piazza Guercino e la Biblioteca civica, il ripristino della zona spogliatoi dello stadio ‘Loris Bulgarelli’ e del magazzino della Protezione civile, mentre nel corso dell’estate dovrebbe prendere corpo il secondo stralcio di lavori sul Centro per l’Infanzia ‘Pacinotti’.
L’obiettivo è quello di completare nei tempi più celeri possibili il percorso di ricostruzione sugli edifici pubblici, affinché possano essere restituiti alla comunità, per lasciarsi alle spalle i segni ancora visibili di quanto avvenuto dieci anni fa. Anche se la memoria di quanto accaduto resterà incancellabile.
di Antonio Lecci
Le scosse telluriche del 20 maggio 2012, e soprattutto quelle di nove giorni dopo, a Reggiolo le ricordano molto bene, nonostante siano trascorsi dieci anni. Il sisma, soprattutto il 29 maggio, lasciò danni enormi ad edifici pubblici, chiese, negozi e abitazioni private. Perfino lo stellato ristorante Il Rigoletto aveva dovuto chiudere per i gravi danni lasciati dal sisma nella storica villa in cui era collocato.
Ma a un decennio di distanza il paese reggiano è cambiato, riaprendo uno dopo l’altro tutti i principali edifici: dalle chiese fino al Centro Trentadue con le sedi delle associazioni del volontariato arrivando al primo stralcio del recupero del teatro e, soprattutto, la riapertura di palazzo Sartoretti, in centro storico, dove sono stati trasferiti tutti gli uffici del municipio. E perfino la piazza centrale ha cambiato volto, con il cuore del paese rimesso a nuovo, tanto da attirare nuove attività economiche e commerciali.
Centinaia gli edifici ristrutturati in questi dieci anni. Alcuni immobili, tra i quali condomini con decine di appartamenti, sono stati demoliti e ricostruiti in modo totale, ovviamente con criteri antisismici e con le tecnologie moderne per il risparmio energetico. Palazzo Sartoretti è stato rimesso a nuovo, ospitando appunto gli uffici municipali ma anche spazi per esposizioni artistiche e biblioteca. Ma il lavoro non è affatto concluso. In progetto ci sono altri edifici da recuperare in modo totale, tra i quali la Scuola Umbertina, prevedendo una spesa totale di circa tre milioni di euro.
Più lunghi sembrano i tempi di recupero della storica rocca, per la quale servono quattro milioni per una ristrutturazione completa. E poi la chiesa di San Venerio per un investimento di 550 mila euro, le ex scuole elementari di Villanova per altri 450 mila euro, la chiesetta di via Cappelletta per 50 mila euro, la chiesa di San Prospero per una spesa di centomila euro. La chiesa parrocchiale, gravemente danneggiata in parti vitali, è invece già aperta da tempo, così come quella di Brugneto, pure quella lesionata in modo evidente dal sisma del 2012. Nei mesi scorsi, facendo il punto della situazione, si era calcolato un totale di quasi quaranta interventi su edifici pubblici, per una spesa di 22 milioni di euro, di cui 15 milioni da bilancio regionale, tre milioni da donazioni private e quattro milioni da risarcimenti assicurativi.