Le vicende dell’istituto di credito che hanno segnato di pari passo la storia della politica italiana nell’ultimo decennio. Le manovre, gli scontri, i retroscena. Il ruolo dell’Europa e quello delle istituzioni locali. Con l’ombra di una morte in circostanze ancora da chiarire e sulla quale indaga una commissione parlamentare. Approfondimenti, interviste, video: tutto in questa nostra inchiesta speciale.
di Pino Di Blasio
Il 2022 sarà un anno di svolta, l’ennesimo, per il Monte dei Paschi di Siena. Non soltanto perché la banca celebra i suoi 550 anni di vita, di attività bancaria ininterrotta dai Medici ai Lorena, dal Granducato al Regno d’Italia, passando per 66 governi dell’Italia repubblicana. Ma anche perché sarà l’anno che stabilirà con esattezza quale sarà il futuro del Monte.
Per cinque secoli e mezzo è stata una banca pubblica, di proprietà del Comune di Siena, istituto di diritto pubblico dal 1936 al 1995, con il Comitato interministeriale, il braccio finanziario del Governo, che nominava i presidenti, dal 1996 al 2016 con vertici eletti dalla Fondazione Mps, dove il Comune e la Provincia avevano la maggioranza qualificata dei consiglieri nominanti. Poi un anno fuori dalla Borsa, con il Tesoro come proprietario di fatto, fino alla maggioranza del 68 percento del capitale passato nelle mani del governo.
Oggi il Tesoro ha il 64 percento del Monte dei Paschi, sta trattando con la Ue una proroga per la cessione delle quote, visto che il termine dell’aprile 2022 per far tornare la banca ai privati non sarà sicuramente rispettato. Il fallimento della trattativa con UniCredit, che alla fine si è rivelato un vantaggio per tutti, aveva spazzato via già da ottobre scorso l’illusione di poter rispettare il piano di ristrutturazione concordato con l’Europa e la Bce. Così il Monte dei Paschi ha cominciato il suo 550° anno cambiando amministratore delegato, puntando il 7 febbraio su Luigi Lovaglio, ex ad di Banca Pekao in Polonia, e del Credito Valtellinese in Italia. Il suo mandato è semplice, in teoria: deve restituire valore alla banca, riportare in alto una capitalizzazione scesa a 863 milioni di euro, dopo aver toccato valori attorno ai 9 miliardi di euro, fino a una dozzina di anni fa. Agendo soprattutto sul versante dei costi, tagliando quindi una bella fetta dei 21.400 dipendenti superstiti, cancellando almeno 200 sportelli in Italia, sfruttando l’aumento di capitale da 2 miliardi e mezzo già annunciato dal ministero dell’Economia. Che aspetta a vararlo quando vedrà i primi effetti della cura Lovaglio.
L’incubo per il Monte dei Paschi, però, è legato soprattutto alle inchieste e ai processi. A Milano i fascicoli sulla banca sono un triangolo delle Bermude giudiziario: dentro ci finiscono tutti, da ex presidenti e amministratori delegati dal 2007 al 2020, a pubblici ministeri che hanno indagato sui derivati e sui crediti deteriorati, e ora financo l’ex procuratore capo di Milano, Francesco Greco. Tutte le inchieste e i processi ruotano attorno agli aumenti di capitale e agli escamotage contabili fatti per cercare di tappare la falla aperta dalla sciagurata acquisizione di Banca Antonveneta, costata quasi 17 miliardi di euro, che ha scatenato la crisi della Banca e della Fondazione madre. Se Luigi Lovaglio riuscirà nei suoi intenti nonostante le tempeste giudiziarie, l’orizzonte di fronte al Monte dei Paschi sarà inevitabilmente più sereno.
All’ombra di Rocca Salimbeni, sede storica del Monte dei Paschi di Siena, si combatte una strana guerra che dura da trent’anni. Raccontiamo questi decenni che hanno sconvolto la banca più antica del mondo, che hanno rivoluzionato un istituto di credito con 550 anni di storia, che hanno portato una città di provincia, con meno di 55 mila abitanti, a diventare capitale finanziaria d’Italia per poi precipitare nel gorgo di una crisi che ha bruciato almeno 25 miliardi di euro di capitale, stando solo agli aumenti decisi nell’ultimo decennio.
La cronaca regala spunti quotidiani sulla vicenda Monte dei Paschi, sulla necessità del Governo, che quattro anni e mezzo fa ricapitalizzò la banca evitando un crac disastroso, e che ora dovrebbe vendere la quota di maggioranza, acquisita con l’immissione di 5,4 miliardi di denaro pubblico. Ma ogni fatto di cronaca ha ragioni storiche, è generato da eventi precedenti, da decisioni passate, da scelte compiute in un determinato periodo, ignari delle conseguenze che avrebbero generato negli anni successivi. Un viaggio scandito per periodi di cinque anni, un lustro che parte dal 1992, la stagione del big bang, della trasformazione in società per azioni delle banche di diritto pubblico.
Radici: i giochi tra politica e finanza
Prima del 1992 il Monte dei Paschi di Siena era una ricchissima banca di provincia, una cassaforte del credito periferica, ma non lontana dai giochi della politica sulla finanza. La riforma del 1936 elesse sei istituti di credito di diritto pubblico: Monte dei Paschi, San Paolo di Torino, Banca Nazionale del Lavoro, Banco di Sicilia, Banco di Napoli, Banco di Sardegna. Non erano le banche più ricche, almeno non tutte. Erano quelle più legate ai territori di appartenenza. La chiamarono “la foresta pietrificata”, alberi fossili mentre il resto del mondo del credito evolveva velocemente con la nascita di colossi dalla Spagna agli Stati Uniti, dalla Francia alla Germania.
Poi arrivò il 1992, la legge Amato, solo dopo con il trattino Ciampi, e la trasformazione in società per azioni, con conseguente, ma solo presunta, privatizzazione, divenne un obbligo. Siena reagì come sua natura contro la trasformazione forzata, anche se indotta da incentivi fiscali che avrebbero reso più ricca la banca. Il Comune, con il sindaco Pierluigi Piccini, affidò all’autorevole giurista Pietro Rescigno un parere contro la privatizzazione che fu molto duro. Il Monte dei Paschi era «un’istituzione della città di Siena, a cui deve la sua origine, e perciò il Comune ne ha la soprintendenza, direzione e tutela e la amministra attraverso un consiglio elettivo».
La trasformazione sarebbe stata «uno spossessamento del Comune da parte del Governo». E molti a Siena videro la spa come «un sopruso». Anche la Provincia di Siena rivendicò la proprietà del Monte e affidò a Gustavo Minervini e Franco Belli un altro parere, più aperturista di quello del Comune. Non fu facile per la deputazione amministratrice del Monte dei Paschi, presieduta da Giovanni Grottanelli de’ Santi, arrivare a votare la trasformazione. Ci fu anche un blitz sulle nomine varato dal sindaco Piccini, che confermò tre dei quattro deputati di nomina comunale (compreso l’ex sindaco Vittorio Mazzoni della Stella), estromettendo solo Alberto Bruschini, più orientato verso la Spa e scegliendo al suo posto Carlo Turchi, sindaco revisore.
Fu una stagione di veleni e ricorsi al Tar, qualche mese dopo quelle nomine furono bocciate dal tribunale amministrativo e scattò un’inchiesta per presunte tangenti, scaturita proprio da quel clima tossico e radioattivo che si respirava in città. Furono arrestati Alberto Brandani e Alberto Bruschini, due degli otto deputati del Monte, e fu perquisito anche il potente provveditore Carlo Zini. Che lasciò l’incarico per far posto a Vincenzo Pennarola, l’uomo che avrebbe dovuto mediare tra banca e Comune, tra favorevoli alla spa e tenacemente contrari. Lo scontro durò dal 1993 al 1995, fino a quell’8 agosto data del decreto del ministro del Tesoro sulla trasformazione in Spa della Banca Monte dei Paschi di Siena.
Nasceva la Fondazione Monte dei Paschi, proprietaria del 100 percento delle azioni della banca. Il valore, solo ipotetico, era vicino ai 9 mila miliardi di lire, ma la Fondazione ebbe in dote un cospicuo patrimonio immobiliare, tra cui Palazzo Sansedoni e altri palazzi nobiliari, oltre a partecipazioni azionarie ricche. In seguito, dopo la quotazione in Borsa del titolo Banca Mps, nel giugno del 1999, la Fondazione era la seconda più ricca d’Europa, con un patrimonio di 16 mila miliardi di lire, tra azioni della banca (il 72 percento ancora nelle sue mani) e gli altri beni. Il passo storico era stato fatto, il Monte era diventato una banca privata. Solo a parole, perché in pratica non lo è mai stato.
Giovanni Grottanelli de’ Santi ricorda benissimo quella sera di ottobre del 1992 quando gli rivelarono che sarebbe stato nominato presidente del Monte dei Paschi. «Mi chiamò il dottor Albis, all’epoca era direttore della Banca d’Italia a Siena – racconta il professore – e mi confessò che era molto probabile che sarei diventato presidente del Monte. A me pareva strano, gli risposi che non avevo nessuna competenza di banche e finanza. “Questo lo lasci giudicare a chi farà le nomine”, rispose Albis. E allora aspettai che le cose accadessero».
All’epoca il presidente del consiglio era Giuliano Amato. Fu lui che la indicò per il Monte?
«Eravamo entrambi professori di diritto costituzionale. Quella sera pensai che dovevo telefonargli. Poi mi fermai».
Fu nominato presidente perché doveva trasformare il Monte in società per azioni?
«Il Monte era una delle ultime banche di diritto pubblico che fu privatizzata. Prima della legge Amato, che sanciva la trasformazione in Spa, c’erano sei istituti di credito di diritto pubblico. A Siena il dibattito era talmente aspro che attaccarono un manifesto nel quale scrissero che tradivo la mia città. Ma il sistema del credito correva veloce verso le privatizzazioni, era solo una questione di tempo».
Non le sembra una corsa all’indietro? Oggi il Monte è tornato banca di Stato.
«Con il senno di poi e per colpa delle “belle amministrazioni” al vertice della banca, forse sarebbe stato meglio non privatizzare. Ma era contrario alla normativa europea e allo spirito dei tempi».
Ci furono dibattiti aspri in deputazione?
«I membri del Consiglio nominati dal governo, assieme a me Antonio Da Empoli e Luigi Cappugi, erano convintamente a favore della Spa. Gli altri frenavano, aspettavano, volevano vedere cosa sarebbe successo. Fino a che si arriva al decreto del ministro del Tesoro, nonché presidente del Consiglio, Lamberto Dini, che l’8 agosto 1995 sancisce la trasformazione in Spa della banca Monte dei Paschi e la nascita della Fondazione».
Ci furono anche inchieste sui deputati del Monte…
«Ricordo benissimo le inchieste per presunte tangenti, le perquisizioni del provveditore Carlo Zini, l’arresto di Alberto Brandani e Alberto Bruschini per le accuse di un imprenditore dolciario. Una delle cose curiose, che possono accadere solo in Italia, è che il giudice concesse a Brandani gli arresti domiciliari assieme all’autorizzazione a partecipare ogni giovedì alle sedute della deputazione del Monte. Poi l’inchiesta finì con l’archiviazione, furono tutti prosciolti».
Quando dal Monte passò alla prima presidenza della Fondazione lei coniò un paradosso diventato celebre.
«La Fondazione figlia è proprietaria della Banca madre, è a questo che si riferisce. Io ero convinto della trasformazione in Spa. Ciò di cui non ero convinto, e che portò alle mie dimissioni anticipate dalla presidenza della Fondazione, è che il Comune di Siena avesse per statuto la maggioranza delle nomine, cosa che portava al controllo della banca. Continuo a pensare che la mia interpretazione sullo statuto fosse quella corretta, che la deputazione dovesse essere espressione di tutto il territorio, Università, Curia, organismi della società. Non solo del partito politico di maggioranza. I risultati si sono visti dopo, banca e Fondazione rovinate per gli amministratori scelti dal partito di maggioranza».
Nell’agosto del ’99 ci fu la quotazione in Borsa di Mps.
«È l’impresa di cui vado più fiero. Andai in Fondazione per quotare il Monte in Borsa. Anche su quel punto c’erano tanti contrari. Ma dopo la quotazione, la banca raddoppiò il valore del suo capitale. E quando mi dimisi, scrissi che, non essendoci uscite di servizio, ero onorato di uscire da Palazzo Sansedoni dalla porta principale».
Il quinquennio d’oro del Monte dei Paschi di Siena, l’anno magico per i conti e per l’appeal della banca più antica del mondo, è quello dal 1996 al 2000, con la prima metà del 1999 come stagione irripetibile. Banca Mps è diventata una società per azioni, cambiano anche le secolari etichette degli organismi dirigenti. La deputazione non c’è più, arriva il primo Consiglio d’Amministrazione. Così come il provveditore lascia la poltrona al direttore generale, con l’idea di trasformare la carica in amministratore delegato. Ma basta guardare la prima tornata di nomine, che non toccano più al Tesoro, al Comune e alla Provincia, ma alla deputazione generale della Fondazione Mps (16 membri, 11 nominati da Comune e Provincia, che mettono bocca anche sulle scelte del volontariato e della Camera di Commercio) per capire che le battaglie hanno solo cambiato terreno di scontro, non la veemenza dei duelli. Il 21 maggio 1997 la Fondazione nomina primo presidente della Banca Spa Luigi Spaventa, già ministro del Bilancio e deputato.
Una scelta di altissimo profilo, fatta direttamente dall’allora ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi. Che mise fine a un rovente braccio di ferro tra le due anime del Pds locale: quella provinciale-governativa che avrebbe voluto Silvano Andriani, già deputato Mps, come presidente. E quella “comunarda”, guidata dal sindaco Pierluigi Piccini, che puntò su Gilberto Gabrielli, allora direttore generale di Abn Amro Italia, il colosso olandese che incrociò poi il Monte nell’affare Antonveneta. Intervenne Massimo D’Alema, non ancora premier ma vertice del Pds, che richiamò all’ordine Piccini e il presidente della Provincia Starnini, e impose Spaventa. Che fu nominato dalla deputazione presieduta da Giovanni Grottanelli de’ Santi. Di Luigi Spaventa al vertice della Rocca si ricorda la definizione della strategia di “polo aggregante federativo”, con il Monte che avrebbe dovuto crescere per cerchi concentrici, alleandosi con altre banche di uguali o minori dimensioni. E l’etichetta di “Sali Berisha” che affibbiò al sindaco Piccini.
Poi un pranzo con il ministro Ciampi a Villa Scacciapensieri, prima del Palio di agosto 1997. Spossato dalle faide senesi, lasciò il Monte nel 1998 per diventare presidente della Consob, dove rimase fino al 2003. Al suo posto Comune, Provincia e Governo trovarono l’intesa sul professor Pierluigi Fabrizi, bocconiano, senese del Bruco e tifoso della Robur. Fabrizi sarà il protagonista del terzo lustro del Monte. Ma era lui al vertice della Banca che a fine 1998 lanciò l’Opa sulla Banca Agricola Mantovana, la prima acquisizione della Spa.
La rotta verso Mantova maturò dopo la doccia fredda della Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto che, nonostante fosse alleata del Monte, rifiutò le avances di Siena. Fabrizi e il direttore generale Divo Gronchi avevano bisogno di un’acquisizione per mettere a frutto il capitale disponibile della banca. Puntarono sulla Bam, una popolare con migliaia di soci tra allevatori, agricoltori e industriali di uno dei triangoli più ricchi della pianura padana. Partì una trattativa estenuante, fatta di rilanci, fino ad arrivare all’offerta di 35 mila lire per azione, per avere il 70 percento del capitale della Bam, più 25 mila lire per un restante 15 percento. Il 20 febbraio 1999, sotto un tendone allestito vicino al casello di Mantova sud, andò in scena l’assemblea dei soci Bam. Che con il 58 percento dei sì, aderì all’Opa di Siena.
Emilio Giannelli non rilascia interviste sul tema Monte dei Paschi da vent’anni. E si è trovato talmente bene che intende continuare per altri venti. L’unica precisazione è sul nome del direttore della Banca d’Italia che rivelò a Grottanelli la sua nomina a presidente del Monte. «Si chiamava Addis, non Albis». Il resto è scena muta. Quello che segue è un ritratto non autorizzato del ritrattista più beffardo, che fu primo provveditore della Fondazione Mps dal 1997 al 2000, dopo essere stato per 35 anni in banca, responsabile dell’ufficio legale, direttore centrale e segretario del consiglio d’amministrazione.
Un collage delle sue battute dell’epoca, degli scontri con i deputati designati dal Comune, della battaglia per lo statuto della Fondazione e della quotazione in Borsa. Niente virgolette, solo ricordi e frammenti di articoli. Che cominciano con Giannelli al quale il Tesoro chiede informazioni su due giuristi candidati alla presidenza Mps: Marco Comporti e Giovanni Grottanelli de’ Santi. Avendo saputo chi sarebbe stato il prescelto, Emilio Giannelli scherzò con il segretario della direzione generale del Monte il 31 ottobre 1992: «Damaso che giorno è domani?» «Ognissanti», replicò lui. «No, qui è Grottanelli de’ Santi.»
Un salto di cinque anni ed ecco che il primo presidente della Fondazione Mps, Grottanelli appunto, sceglie come provveditore Emilio Giannelli. Tre sono le missioni affidate al nostro: la definizione del patrimonio della Fondazione, l’elaborazione dello statuto e la quotazione in Borsa. Sul primo punto, l’accortezza dei vertici di allora fu di diversificare l’ingente dote conferita a Palazzo Sansedoni. Che ricevette dalla banca tutte le partecipazioni di peso, come le quote di Sanpaolo e di Cassa Depositi e Prestiti più una lunga lista di immobili non strategici per il Monte, molti dei quali pignorati dal Credito Fondiario, con palazzi di enorme pregio a Siena, a Roma e ovunque. Tanto che, nel 1999, la Fondazione aveva un patrimonio perfettamente bilanciato: quasi 5 mila miliardi di lire che era il valore attribuito al 100 percento delle azioni del Monte dei Paschi e 4.500 miliardi di altri asset.
Fu questa avvedutezza che consentì di arrivare alla quotazione in Borsa, risparmiando il 27 percento di tasse sui proventi del 25 percento di azioni Mps collocate. I quattro deputati del Comune non volevano che il Monte sbarcasse in Borsa. Fu il presidente della banca Luigi Spaventa che convinse un recalcitrante sindaco Piccini. L’idea dei vertici della Rocca era di offrire le azioni al prezzo unitario di 3,60 euro. Fu Emilio Giannelli, supportato dagli advisor di Credit Suisse, che impose 3,84 euro.
La quotazione fu un successo, le richieste di azioni furono quattro volte superiori all’offerta e il prezzo schizzò subito a 4,25 euro. Il massimo storico fu 5,20. L’ultimo atto di Giannelli provveditore fu l’elaborazione dello statuto della Fondazione. Come Grottanelli, anche lui voleva allargare la platea di enti nominanti, non restringerla a Comune e Provincia, dominati allora dal Pds. Le proposte furono tante, da inserire il Cnr e altri organismi nazionali, ad allargare la platea delle istituzioni senesi. Lo scontro con il Comune, guidato da Piccini, fu feroce sulle nomine e sulle incompatibilità. Giannelli voleva che il presidente fosse esterno, non venisse dalla deputazione generale e non fosse sindaco o presidente della Provincia. L’accordo non ci fu, inviarono al Tesoro lo statuto con spazi bianchi. Ci pensò poi la direttiva Visco a fermare l’ascesa di Piccini alla presidenza della Fondazione. Ma Giannelli aveva già finito il suo mandato.