di Gabriele Bonfiglioli
In Emilia esiste un pre e un post sisma. Il post sisma è fatto di lacrime, sudore e sogni. Storie di piccole e medie imprese, in un territorio storicamente ricco di ditte a conduzione familiare, che in pochi secondi hanno perso il lavoro di una vita. Storie di aziende che, messe in ginocchio dal terremoto, hanno saputo ricostruire e rimettersi in piedi.
Ma cosa rappresentò, per il mondo imprenditoriale, il sisma del 2012? «Fu un disastro – ricorda Enrico Postacchini, presidente Confcommercio Emilia-Romagna –. Forse ora ce ne siamo dimenticati, perché stiamo vivendo anni di tragedie ancora più grandi, ma alcuni settori, come il turistico e il commerciale, vissero per tanto tempo un periodo di completa ‘rarefazione’. Molte aziende furono costrette a spostarsi per mesi nei container o nelle ‘casette’ provvisorie. Con tutte le difficoltà del caso». I danni, secondo una stima basata sui primi dati, ammontarono a «cinque miliardi di euro solo per le attività produttive – sottolinea Annalisa Sassi, presidente Confindustria Emilia-Romagna –. Al sisma, inoltre, si sovrappose anche la crisi economica che colpì l’Italia proprio in quegli anni».
Nessuno, però, rimase con le mani in mano. «Registrammo subito una gran voglia di ripartire – spiega Marco Pasi, direttore Confesercenti Emilia-Romagna –. La situazione era disperata, eppure quasi tutti non vedevano l’ora di rimettersi in gioco. E ce l’hanno fatta. Oggi le imprese sono tornate al 100 per cento dell’operatività. Chi ha chiuso lo ha fatto per casi particolari, come la vicinanza alla pensione. Ma è stato sostituito da nuove aziende». Un risultato che, all’epoca, appariva per nulla scontato: «C’era il timore di una delocalizzazione, specie delle multinazionali del biomedicale, sollecitate, in certi casi, a lasciare l’Emilia-Romagna e ricostruire altrove – prosegue Sassi –. Invece, la maggioranza delle aziende ha scelto di reinvestire sul nostro territorio».
Per le associazioni di categoria, la ripresa è stata frutto «di una sinergia tra pubblico e privato – prosegue Postacchini -. Gli imprenditori hanno subito investito nella ripartenza, senza aspettare i fondi pubblici che, dopo aver seguito l’iter burocratico, sono comunque arrivati. Le aziende si sono fidate dello Stato e viceversa». Risorse che, secondo il sito ‘Open ricostruzione’, il portale della Regione che monitora i finanziamenti, ammontano a 5,1 miliardi per gli interventi privati (3,2 per la ricostruzione delle abitazioni e 1,9 per le attività produttive) e oltre 800 milioni per le opere pubbliche.
«Magari con un po’ di ritardo, ma tutte le imprese hanno ricevuto i contributi – aggiunge Pasi –. La Regione è stata avvertita come un soggetto presente: a ciò ha contribuito di certo la nomina dell’allora presidente Vasco Errani a Commissario delegato per l’emergenza sisma». Un ‘attore’ cruciale sono state poi proprio le associazioni. C’è chi ha costruito casette in legno provvisorie, chi ha messo le proprie strutture a disposizione degli sfollati e chi, infine, si è speso per trovare fondi (7,7 i milioni raccolti dal Fondo costituto da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil). «Emerse lo spirito di squadra che caratterizza il nostro Paese nei momenti di difficoltà – conclude Sassi –. Dopo dieci anni possiamo dirlo: è stato un grande esempio di civiltà».
di Massimo Selleri
«Dobbiamo ricostruire». A dieci anni dal terremoto che colpì l’Emilia-Romagna il cardinale Matteo Zuppi ha le idee molto chiare su quali siano i passi da fare per superare le difficoltà legate al sisma. «Vedere una chiesa chiusa non ancora restaurata ci fa male e ci ricorda che non possiamo rimandare ulteriormente. C’è una certa differenza tra sanare e guarire. Sanare lascia una cicatrice, un qualcosa che ci dice che non abbiamo realmente ricostruito ma abbiamo aggiustato. Guarire è ricostruire, cioè riconsegnare quanto di bello e di buono è stato fatto. Il terremoto sarà superato solo quando avremo ricostruito luoghi e relazioni. Allora saremo guariti».
Come si guarisce?
«Innanzitutto imparando la lezione che il terremoto ci ha dato. Noi stiamo uscendo dalla pandemia del virus, ma questa è solo una delle tante pandemia che affliggono il mondo. Il sisma è stata un’altra espressione del male. A volte ci facciamo prendere dalla tentazione di diventare complici del male pensando che in questo modo si possano contenere gli effetti, ma questa connivenza non ci porta da nessuna parte. La solidarietà è l’unico modo per vincere il male».
Perché?
«Quando visitai le zone colpite dal terremoto nel 2012 la cosa che più mi sorprese fu il modo con cui le persone si aiutarono tra di loro e come il resto della regione aiutò quelle persone. Davanti al male noi abbiamo due strade la prima è quella di voltarci pensando che non ci colpirà e l’altra è quella di tendere una mano alle sue vittime. La maggior parte della gente si è chiesta che cosa poteva fare per chi è rimasto senza casa ed era costretto a vivere in una tenda. La risposta a questa domanda è stata la solidarietà, cioè l’aiutare chi era in difficoltà senza aspettare che fossero gli altri a farlo. Il risultato è che oggi tutti sono tornati a vivere nelle proprie case».
Se il ricordo è il primo passo per imparare, il secondo è dimenticare la paura?
«No, il contrario. La paura ci trasmette il senso del limite e non può essere ignorata. Vivere senza la paura del pericolo sarebbe da incoscienti. Le persone prima di rientrare nelle loro case si sono messe in sicurezza e noi aspettiamo a riaprire le chiese fino a quando non saranno sicure. La paura si supera con la consapevolezza, sapendo quali sono le regole da seguire per limitare i pericoli. Nessuno dormirebbe in un edificio che rischia di crollare o manderebbe i propri figli in una scuola ancora pericolante. Anche lo stare e il mettere in sicurezza è una espressione della solidarietà e questo lo abbiamo imparato bene con la pandemia. Il mondo è malato fino a quando ci sarà anche solo una persona contagiata e tornerà sano solo quando tutti saremo guariti o tutti avranno la possibilità di curarsi».
di Alberto Greco
Sono trascorsi 10 anni dai tragici eventi del maggio 2012, ma il ricordo delle 28 persone decedute e dei danni per oltre 13 miliardi di euro subiti dalle strutture del cratere nell’Area Nord della provincia di Modena non si è cancellato. Restano le testimonianze di abitazioni e case ancora diroccate e restano, come corpi imbalsamati, i ponteggi che sottraggono alla vista tanti edifici pubblici. Non è così per le imprese. Le più pronte a risollevarsi dopo quel knock down.
Ne è esempio il distretto biomedicale, che a partire da quella data ha registrato un aumento del valore totale della produzione del + 11,2 %. Facciamo il punto con Giuliana Gavioli, presidente filiera Salute Confindustria Emilia e senior vice presidente Ricerca & Sviluppo in B.Braun Avitum.
La sua impresa come altre ha subito ingenti danni? Come avete reagito?
«B.Braun Avitum Italy, nonostante ingenti danni, non ha mai interrotto completamente la produzione grazie alla possibilità di delocalizzarla presso alcuni terzisti esterni. Noi, come tante altre imprese danneggiate, non abbiamo mai pensato di trasferire all’estero la produzione essendo Mirandola un importante polo tecnologico per il settore medicale».
Come è stata possibile questa risposta così pronta alle avversità?
«Non è stato semplice, ma abbiamo reagito grazie ad una grande forza di volontà, alla dedizione del personale e al sostegno della nostra casa madre che ci ha messo a disposizione risorse e materiali necessari a riorganizzare la produzione senza mai fermarla. C’è stata anche grande solidarietà tra le aziende dell’area che si sono sostenute a vicenda fornendosi vicendevolmente i materiali mancanti, potendo così continuare le attività e guardare al futuro».
Quanto tempo è servito per rimettere in piedi l’azienda?
«La ristrutturazione degli immobili non danneggiati irreparabilmente sono iniziate già ad inizio giugno ed il 23 luglio 2012 la produzione è potuta riprendere al 100%. Il magazzino distribuzione prodotti finiti è stato delocalizzato temporaneamente a Bologna per non interrompere le forniture agli ospedali. Nessun paziente è rimasto senza materiale e considerando che Mirandola nel 2012 forniva il 60% di tutti i trattamenti dialitici, questo è stato un ottimo risultato».
Avete ricevuto aiuti? A quanto ammontano?
«B. Braun Avitum Italy è stata in grado di completare la demolizione e ricostruzione di 3.000 mq di edifici in soli 7 mesi ed è stata tra le prime aziende del distretto a completare la ricostruzione. Siamo rientrati a tempo di record il 22 dicembre 2012, in tempo per festeggiare il Natale. I lavori di ricostruzione sono iniziati immediatamente grazie alla compagnia di assicurazioni. I danni sono ammontati a 6.300.000 euro, di cui 5 milioni ci sono stati rimborsati dall’assicurazione ed altri 600.000 euro dalla regione Emilia-Romagna. Per i rimanenti 700.000 euro si è ricorsi all’autofinanziamento».
La rinascita è stata completata, ma è arrivata la guerra in Ucraina ad oscurare l’orizzonte per le imprese. Ci sono comuni denominatori tra le due emergenze, di allora e di oggi?
«Le preoccupazioni sono davvero tante. La guerra è arrivata quando era ancora in corso una pandemia mondiale che ha messo in ginocchio specialmente il settore medicale in quanto molti ospedali hanno sospeso le normali attività per curare i pazienti Covid e non si è ancora ritornati ai livelli del 2019. Da inizio 2022, poi, stiamo affrontando le difficoltà dovute al reperimento di materie prime, ai costi della logistica e dell’energia. Vi è stato un fortissimo aumento dei costi di produzione che stiamo sopportando per intero noi aziende produttrici in quanto non ci è concesso di adeguare i prezzi di vendita. In questo scenario la “buona volontà ed impegno” che ci hanno sostenuto ed aiutato durante la fase critica del terremoto purtroppo non può nulla. L’impatto della pandemia e della guerra sulla nostra economia è doppiamente dirompente e il prossimo futuro si prospetta molto critico».
di Cristiano Bendin
Durante le scosse che, nel 2012, portarono rovina e morte anche nel Ferrarese, era sindaco di Bondeno, tra i Comuni del cratere più colpiti dal terremoto. Nel 2022, dieci anni dopo quei fatti, Alan Fabbri è primo cittadino di Ferrara, l’unico capoluogo di provincia dell’Emilia colpito dal sisma direttamente al cuore: abitazioni private ma anche e soprattutto chiese e monumenti, compresi il Duomo (tuttora chiuso in seguito alle ferite) e il Castello Estense, simbolo della città.
Fabbri, innanzitutto cosa ricorda di quel 20 maggio 2012?
«Allora ero sindaco di Bondeno ma ogni cosa è rimasta nitidamente impressa nella mia mente. Erano le 4.04 quando mi svegliai di soprassalto: pensavo fosse caduto un aereo vicino a casa, poi realizzammo che era stata una forte scossa di terremoto. Ricordo la polvere e le urla dei vicini. Presi subito l’auto e, assieme a mio padre, feci una perlustrazione per vedere cosa fosse successo. Non dormii per due notti tra le cose da fare, la preoccupazione e la paura per le scosse di assestamento».
Quali furono le priorità in quei primi momenti?
«Tutti chiedevano le tende, che però non c’erano. Mi scontrai con Gabrielli, allora numero uno della Protezione civile, perché voleva costruire dei campi tenda solo nel Modenese: alla fine lo convincemmo ad allestirne anche a Bondeno e Scortichino».
Dieci anni dopo quegli eventi lei è sindaco di Ferrara: com’è la situazione?
«Ferrara riportò gravi danni soprattutto ai monumenti e alle chiese ma la ricostruzione è andata bene. Ho più volte pensato che se l’epicentro fosse stato più vicino al capoluogo, Ferrara si sarebbe trasformata in un altra l’Aquila, con distruzione totale e morte. Ecco perché è stato, ed è importante ricostruire con le più moderne tecnologie antisismiche: uno sforzo pubblico- privato che ha coinvolto, e deve continuare a coinvolgere, Comuni, Regione e Stato».
A che punto è la ricostruzione nel dettaglio?
«Sono stati realizzati interventi sui beni monumentali per 38,4 milioni di euro, su scuole e palestre per sei milioni, su immobili istituzionali per 9,4 milioni e sugli alloggi Erp per 5,8 milioni per un totale di ben 59,6 milioni di euro: il 72 per cento di questi lavori è stato realizzato; il restante 28 per cento è in fase di realizzazione».
Quali sono le fonti di finanziamento di questi interventi post sisma?
«Dalla Regione è giunto il 65 per cento dei fondi, pari a 38,8 milioni: 20,3 milioni, pari al 34 per cento, derivano dalla copertura assicurativa e l’1 per cento, pari a 0,5 milioni, dai privati».
E i contributi ai privati per la ricostruzione?
«Sono state accettate 457 richieste tramite Mude: 354 per inagibilità temporanea, 58 per inagibilità pesante e 45 per inagibilità leggera. Di tutte quelle arrivate, 25 sono decadute o c’è stata una rinuncia del richiedente. Il tutto per un totale di 53,1 milioni di euro di contributi approvati. Il 92 per cento dei lavori è terminato, in corso è il restante 8 per cento».
Dati che possono farci dire che il modello Emilia di ricostruzione ha funzionato?
«In generale sì. Anche la burocrazia, che in linea di massima rappresenta un freno, non ha ostacolato più di tanto. Anzi, ha fatto da buon filtro contro le infiltrazioni mafiose e malavitose. Buona anche la gestione che definirei locale e federalista attuata dalla Regione, un modello da esportare in altre zone».
E poi la tempra degli emiliani: pochi piagnistei e subito al lavoro…
«Assolutamente sì. Grande forza di reazione, grande impegno dei privati e incredibile forza di volontà ma anche una grande mobilitazione da tutta Italia per aiutarci. E così una terra come la nostra, da sempre abituata a dare aiuto, ha sperimentato la bellezza di ricevere aiuto e solidarietà dagli altri».
Quali i problemi della ricostruzione da risolvere?
«La priorità in questo momento è adeguare il prezzario perché le imprese edili non ci stanno più dentro con i costi».
di Gabriele Bonfiglioli
«Fu uno choc tremendo. Era il 29 maggio e stavo andando allo stabilimento di Mirandola, per vedere cosa si fosse salvato dopo la prima scossa. Ero alle porte del paese quando iniziò a tremare tutto: case e palazzi iniziarono a crollare sotto i miei occhi». Marco Cervellati, amministratore delegato di Comet, insieme al fratello Davide (anche lui ad) e al padre Sante (presidente), ripercorre così i tragici giorni che misero in ginocchio l’Emilia-Romagna. E, con lei, migliaia di imprese.
Cervellati, torniamo a quel maggio 2012. Cosa ricorda?
«Tutto. Già la prima scossa, quella del 20 maggio, causò ingenti danni al nostro punto vendita di Mirandola. Vennero giù pezzi del soffitto. Stavamo capendo come intervenire quando ci fu la seconda grande scossa. Fu subito chiaro che lo stabilimento era ormai inagibile».
E poi?
«Insieme ai vigili del fuoco, una cinquantina di nostri dipendenti si mise al lavoro per tirare fuori il poco che si era salvato. Lavorammo, con i caschi di protezione in testa, per 24 ore di fila. Fu un grande esempio di collaborazione».
Una bella storia, certo, ma piena di difficoltà.
«Per un mese, ogni giorno, andai a Mirandola. Vidi la disperazione delle persone: tanti dormivano nelle tende, altri nei camper. La Comet stessa mise a disposizione dei veicoli per i dipendenti sfollati. Alla fine, l’azienda subì danni per circa tre milioni di euro. Quello che non mancò mai, però, fu la tenacia, la volontà di rialzarsi».
Il materiale salvato dove finì?
«Nei punti vendita vicini, come quello di San Giovanni in Persiceto. Ma il nostro problema era permettere ai dipendenti di lavorare. L’ipotesi ’cassa integrazione’ non fu mai presa in considerazione: molti di loro avevano perso tutto, avevano bisogno di lavorare. Così, in un giardino pubblico, allestimmo subito un negozio improvvisato, all’interno di un tendone da 200 metri quadrati».
Per quanto tempo?
«Rimanemmo lì un mese. Poi, per fortuna, riuscimmo a trovare un nuovo complesso a Mirandola, che non aveva subito grossi danni. Lo affittammo da una società concorrente che acquisimmo: tutti i loro dipendenti entrarono in Comet. Nessuno perse il lavoro, anzi qualcuno lo trovò».
Ma non fu l’ultimo step nel vostro percorso di ripartenza.
«Esatto. Volevamo un edificio di proprietà. Il capannone danneggiato dal sisma era in affitto, così come quello in cui ci trovavamo temporaneamente. Quindi, nel dicembre 2013, ad appena un anno e mezzo dal terremoto, inaugurammo un nuovo punto vendita a Mirandola. Un impianto più grande e fornito del precedente, con reparti dedicati all’illuminazione che prima non erano presenti».
In poco tempo avete dovuto gestire situazioni diverse…
«Sì, siamo passati da essere in affitto ad avere un negozio ’di fortuna’ in una tenda, da acquisire un complesso ‘concorrente’ a costruire un punto vendita di proprietà. E tutto è successo in un anno e mezzo: aprimmo il nuovo negozio in uno ’scenario di guerra’, mentre il centro storico era chiuso e tante attività erano ancora nelle casette in legno. Credo sia una storia esemplare di ripartenza».
La ripresa è stata anche frutto dei fondi stanziati dalle istituzioni?
«Qualcosa abbiamo ricevuto, ma siamo partiti a ricostruire subito, senza attendere l’aiuto dello Stato. Quando abbiamo cominciato a rimetterci in piedi, non sapevamo se e quante risorse sarebbero arrivate».
Com’è, da imprenditore, fare i conti con un disastro del genere?
«Non è facile. Oltre ai danni per l’azienda, bisogna pensare alle tante famiglie che dipendono da Comet. Il nostro primo pensiero è andato a loro, perché nessuno rimanesse senza lavoro. E ce l’abbiamo fatta».
di Laura Guerra
Dai terremoti si può rinascere. Soprattutto se si è uniti. È il grande insegnamento che il sisma dell’Emilia del 2012 ha dato a tutti, calando prima un buio fatto di paure, scosse e distruzione, squarciato però da un’enorme solidarietà che ha colpito al cuore questa terra riattivandogli il battito.
È la storia della scuola media di Sant’Agostino che la notte del 20 maggio 2012 si trovò a fare i conti non solo con le profonde crepe nei muri, ma anche con la torretta che il sisma aveva fatto ruotare e torcere, chiudendo definitivamente le porte ai tanti bambini che, come unica prospettiva, avevano quella di anni nei container.
Mediafriends aveva dunque deciso di promuovere una raccolta fondi insieme a Tg5 e a Qn – Il Resto del Carlino, alla quale hanno aderito migliaia di italiani, che con la loro generosità hanno affidato all’Associazione Rilaquila la gestione del progetto per la nuova scuola media di Sant’Agostino, riempiendo il vuoto di un futuro interrotto e permettendo in poco tempo di ridare vita aduna scuola che oggi pullula e di giovani, di positività e di futuro.
Per la scuola sono stati investiti 2 milioni 800mila euro per la realizzazione, 535mila euro per la platea fondazione, 262mila euro per il parcheggio, 100mila per l’impianto fotovoltaico, 263mila giunti dalle donazioni per arredi, rivestimenti e area verde e nell’atrio della scuola rinata, in segno di riconoscimento, campeggia ancora oggi la targa con i nomi delle vittime, dei donatori, le ditte, promotori e costruttori del progetto.
«È il segno tangibile che non siamo stati lasciati soli in quel momento così drammatico – dice la dirigente scolastica Paola Manzan – l’unione di tante mani che hanno pensato a regalare una nuova scuola ai nostri ragazzi con un grande gesto di solidarietà. L’anniversario del decennale è occasione per ritrovarci davanti a quella targa e parlare coi nostri giovani studenti di quanto sia stato importante quel gesto e dei valori che rappresenta».
Scuola che ogni giorno respira di vita. «Costruita con ampi spazi dopo il sisma, ci ha permesso di affrontare meglio anche l’emergenza covid – prosegue – abbiamo 9 classi, ospita 206 bambini ma dall’inaugurazione del 15 dicembre 2012, avvenuta in tempi record, è stata la casa di studio e di crescita per oltre 700 ragazzi di scuola media. Abbiamo 9 classi, laboratori di informatica, arte e musica, una biblioteca e soprattutto, una bellissima palestra interna ad uso esclusivo della scuola. In questi anni i ragazzi hanno fatto sempre più loro questo stabile, ad esempio, abbellendo il piazzale interno insieme all’insegnante di arte». Scuola consegnata arredata, donando anche i pc per l’aula multimediale.
«Ha permesso di iniziare subito ma soprattutto di dare un servizio alle famiglie, mantenendole sul territorio – dice –. Se ripenso ai giorni del sisma penso alla difficoltà, allo smarrimento e alla paura ma questi gesti hanno dato forza a tutti, voglia di ricominciare e ricostruire. E dire ‘ce l’abbiamo fatta’. A tutti coloro che hanno dato anche solo un euro, anche oggi voglio dire grazie. È stato un gesto vitale che anche oggi per i nostri ragazzi è un esempio, e gli insegna l’importanza dell’unione, il concetto di solidarietà e cooperazione. Dall’altra parte, chi ha dato vita a quella raccolta fondi pensando a noi, lo ringrazio perché aveva capito che la scuola è fondamentale, centro delle società, luogo di insegnamento ma anche di integrazione, socializzazione, del saper rapportarsi in gruppo. Senza quell’aiuto forse sarebbero rimasti per molto tempo nei container e sarebbe stata molto dura per tutti».
Realizzata dalla Wolf Haus, con la migliore tecnologia antisismica abbinata alla più innovativa tecnica costruttiva a risparmio energetico, la nuova scuola media di Sant’Agostino è stata la prima ScuolaEnergyPiù in Italia. «Ben costruita e rifinita, a distanza di 10 anni è ancora perfetta – conclude – di certo è un esempio di denaro pubblico speso bene».