di Beppe Boni
Il giorno più lungo mosse i primi passi mentre ancora l’alba bussava alla porta della notte. Ecco i numeri che fissano l’inizio del terrore fatto di scosse, paurosi oscillamenti, crolli di case e torri: 20 maggio, ore 4,03, sisma di 5,9 della scala Richter. Disastri e morti fra Modena, Ferrara e Bologna. Fui uno di quelli sbalzato da letto e fuggito fuori casa insieme alla famiglia. Tutti salvi? Casa integra? Si, per fortuna.
Uno sguardo rapido alla tv e al telefonino per capire dalle notizie diffuse dall’ Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia che l’epicentro delle scosse era fissato nell’area fra Finale Emilia (Modena) e Cento (Ferrara). Prima telefonata verso le 4,20 al collega Stefano Marchetti che abita proprio in piazza a Finale. “Qui è un disastro, è crollato mezzo paese…”, era stravolto e parlava dall’auto parcheggiata in piazza dove si era rifugiato con la madre anziana. Lui era vestito perché una precedente scossa all’una di notte gli aveva suggerito saggezza.
Da quel momento e per le ore successive la raffica di telefonate fra colleghi fu una giostra senza fine. Nella baraonda di notizie ancora imprecise, ma già tragiche, si trattava di coordinare i servizi cercando di aggiornare minuto dopo minuto il sito web che era già operativo. Clic, clic, clic, da casa i giornalisti della redazione Internet, bravi e veloci, correvano.
Dalla redazione di Ferrara, Bologna, Modena, Reggio Emilia altri cronisti si precipitarono sui luoghi dei crolli mentre il giornale incredibilmente alle 9,30 del mattino era già un porto di terraferma con direttori, vicedirettori, capiredattori e giù nella scala gerarchica fino all’ultimo collaboratore.
Bisognava decidere i servizi, selezionare le testimonianze, cercare le foto, guidare il flusso delle notizie in aggiornamento sul web che arrivavano in modo caotico come il traffico della tangenziale al calar della sera. Un fotografo e la fidanzata – cronista alle 4,30 erano già fra Finale Emilia e San Felice nel Modenese dove la terra aveva tremato forte anche se il drammatico bilancio di perdite umane a questo giro fu nella Bassa ferrarese con sette morti.
Nella mattinata si pensò ad una edizione straordinaria da far uscire nel pomeriggio, ma la situazione era ancora troppo fluida e incerta per una rischiosa corsa contro il tempo.
Nella sera di quel 20 maggio il giornale, nelle sue edizioni nazionale e delle cronache cittadine, fu chiuso tardissimo sul filo del rischio per avere un aggiornamento più fresco possibile. Il giorno successivo il giornale uscì con un titolo in prima pagina che recitava Ore di paura. Sullo sfondo la foto di una torre dell’orologio spaccata a metà che divenne il simbolo del tempo spezzato e la memoria di quell’evento. Tornammo tutti a casa con l’angoscia di un’altra notte pericolosamente densa di incognite. E fu difficile dormire per l’adrenalina accumulata. Presero sonno con difficoltà anche diversi colleghi che, mandati sui luoghi del disastro, riposarono, si fa per dire, in auto per essere già sul posto il giorno successivo. Pasti e coperte offerti dalla Protezione civile. Ma nessuno sorrideva.
di Valerio Baroncini
Quando il capannone della Tecopress di Dosso di Sant’Agostino, nel Ferrarese, s’è sbriciolato come un castello di carte, Gerardo Cesaro era quasi fuori da quella che sarebbe diventata la sua tomba. Il corpo fu ritrovato sul perimetro, fra i detriti, la polvere. Tute da lavoro, catenine, attrezzi. “Il mio Gerardo, un mese prima della scossa aveva firmato il contratto a tempo indeterminato”, dice con la voce spezzata Catia Zuccheri.
Qui, a Marmorta di Molinella, Bassa bolognese di nebbie e gran lavoratori, Catia e Tommy, un cagnolino nero di diciassette anni, aspettano ancora Gerardo. Una delle vittime del ‘terremoto industriale’, come l’ha definito qualcuno.
Catia, chi era il “suo” Gerardo?
«Gerardo era una persona solare, di gran cuore e disponibile per tutti, un uomo difficile da trovare. A Marmorta era arrivato facendo il servizio militare, da carabiniere. E’ finito in questo paesino sperduto, proprio sperduto. E ci siamo conosciuti e amati, da giovanissimi. Per anni ha fatto il carabiniere, poi cambiò, andando in fabbrica, a lui morì una zia nel terremoto dell’Irpinia… Ma lui non ce l’ha fatta».
Cosa ricorda di dieci anni fa?
«Da un pochino Gerardo era in mobilità: aveva lavorato in una fonderia a Budrio. Per andare alla Tecopress accettò uno stipendio inferiore, ma gli serviva ancora qualche anno di contributi: la legge Fornero aveva ppena cambiato le carte in tavola…».
E il 20 maggio?
«A lui il lavoro piaceva. Gli avevo chiesto di stare a casa, visto che era il weekend. Ma lui aveva deciso di fare un doppio turno di notte e così avrebbe avuto quattro giorni consecutivi di riposo».
E?
«Il cane sapeva a che ora tornava Gerardo. E quel giorno stava alla finestra. Andò ad aspettarlo, sembrava quasi avesse avuto una premonizione, che si sentisse la tragedia. E invece Gerardo non arrivò mai. Alle 7.30 del mattino mi arrivò la chiamata che nessuno vorrebbe mai sentire: ‘Dopo il terremoto il capannone è distrutto. Suo marito è disperso’».
E lei come reagì?
«C’era il mio figlio più piccolo in casa, lui iniziò a urlare. Io invece rimasi senza parole. Muta».
Un processo ha portato alle condanne sul tema sicurezza.
«È emerso chiaramente che la sicurezza non c’era. Anche io ho lavorato in una fonderia, so cosa significhi e so che spesso fai corsi, ma non sei preparato a tragedie come quella del 2012».
Molte procedure, molte regole da allora però sono cambiate.
«Io spero che il sacrificio di Gerardo sia servito. Tutto qua».
Le istituzioni le sono state vicine?
«Subito ho avuto strette di mano e visite: penso a Giorgio Napolitano o Laura Boldrini. Ma poi…»
Poi?
«Poi nulla. Anche dal sindaco, nulla».
Se potesse avere Gerardo davanti a lei, cosa gli direbbe oggi?
«Per due-tre anni l’ho cercato sempre, come fosse con me, accanto a me. Gli chiedevo tante cose, parlavo con il suo ricordo, con la sua anima, L’avevo sempre in mente e l’ho in mente ancora adesso, mi manca tantissimo ma ho imparato a vivere in questa situazione. Un desiderio però l’avrei».
Quale?
«Siccome sono in pensione, i mie figli sono già grandi, beh, sarei pronta ad attuare il nostro progetto».
Qual era il sogno suo e di Gerardo?
«Vendere tutto, prendere un camper e girare il mondo. Gerardo, non me lo sono mica dimenticata!».
di Valeria Selmi
Ventotto morti, 300 feriti, 59 comuni colpiti e 45mila sfollati. Sono i numeri, impressionanti, del terremoto 2012 che ha devastato l’Emilia, in particolare le province di Modena, Reggio, Ferrara e Bologna (ma anche Rovigo e Mantova), il cosiddetto ’cratere’. Per questi territori, il 20 maggio del 2012 fu un’alba di paura. Erano le 4.03 quando la prima scossa di magnitudo 5.9 della scala Richter (profondità 6,3 chilometri) sgretolò case, aziende, edifici pubblici, chiese con crepe e crolli ovunque. Nove giorni dopo, quando si era già attivata una imponente macchina della solidarietà tra tendopoli e volontari accorsi da tutta Italia, una seconda devastante scossa alle 9 del mattino aggravò il bilancio. In particolare quello delle vittime: 28 in totale, gran parte operai e dipendenti di aziende, travolti dai crolli.
La Haemotronic di Medolla pianse quattro corpi. Giovani tornati al lavoro nella speranza che il terremoto fosse solo un brutto sogno, e invece l’incubo si è ripresentato, peggio di prima, intrappolandoli tra montagne di macerie. Il monumento dedicato a tutte le vittime del sisma del 2012 è stato inaugurato a Medolla, nel Modenese, il 29 maggio 2021, nono anniversario della seconda scossa: una scultura in bronzo intitolata ’Riconciliazione’, realizzata su progetto di Lisa Buffagni, ex studentessa dell’Istituto d’arte ‘Venturi’ di Modena. Le ferite, non quelle nei cuori, mai rimarginate, ma quelle materiali, in gran parte sono state sanate. Ricordiamo che furono 14mila gli edifici sgomberati e 19mila le famiglie evacuate che trovarono immediata assistenza negli 89 punti di accoglienza.
La fisionomia dei centri storici venne stravolta, i cittadini persero nei crolli i loro punti di riferimento, storici e culturali, con 27 biblioteche e 33 teatri danneggiati. Ma la vera scossa fu quella all’economia. È sufficiente sfogliare i numeri del bilancio per rendersi conto dell’impatto di questa calamità: 12,2 miliardi di danni complessivi, di cui 5,2 miliardi alle imprese (66mila quelle colpite) e 3,5 alle abitazioni. Infine, la doppia scossa di dieci anni fa, generò un calo del 2,2 per cento del Pil quell’anno (nell’Area Nord modenese tremò il più grande distretto biomedicale italiano, il secondo al mondo dopo gli Stati Uniti).
di Maria Silvia Cabri
Biagio Santucci, di Mirandola, aveva 24 anni, un bellissimo sorriso, e tanta voglia di vivere. È morto il 29 maggio 2012 nel crollo dell’Haemotronic di Medolla, azienda dove lavorava, a causa delle scosse sismiche. È stato la vittima più giovane del terremoto dell’Emilia.
Sono passati dieci anni ma il dolore non passa per chi, come la mamma Anna Cannavacciuolo, non ha mai smesso di ricordare il figlio, e di lottare per quello che è successo, al fine di rendere sempre onore alla memoria del figlio. Un lutto cui si è aggiunto, due anni fa, quello della morte dell’altro figlio Christian, 28 anni.
Anna, come ha vissuto questi dieci anni dalla morte di Biagio?
«Per me non è passato neanche un minuto. Il tempo si è fermato al momento in cui sono andata lì dove lavorava Biagio. Erano circa le 11 del 29 maggio 2012, non avevamo più sue notizie, il cellulare non suonava e mi sono fatta accompagnare sul suo luogo di lavoro: non c’era più niente. Il mio cuore si è fermato a quell’istante».
Come ha cercato di superare il dolore?
«Il dolore non si supera. Vivo ogni giorno questo lutto, cui due anni fa si è aggiunto quello dell’altro mio figlio Christian, morto a 28 anni, dopo che da tempo soffriva di una patologia invalidante».
Che mamma si definisce?
«Non spetta a me dirlo. Sono ancora mamma di tutti e tre i miei figli; sono una mamma come tutte le altre, non ho fatto nulla di speciale. Per sempre onorerò la memoria di Biagio e di Christian. Ora sono una nonna, grazie a mia figlia Luana, che mi ha donato una nipotina di quattro anni e un’altra che è in arrivo».
Che ricordo ha di quel 29 maggio 2012?
«Biagio è morto in 14 secondi. Dopo il crollo dell’azienda era disperso, l’hanno trovato il giorno dopo alle 12. Quando sono andata sul posto, le sue colleghe venendomi incontro, abbracciandomi, mi hanno detto che quando sono iniziate le scosse lui era tornato dentro alla ditta per mettere in sicurezza una macchina. Non è più uscito da lì. Non ho voluto leggere il referto medico e non l’ho voluto vedere per ricordarlo sorridente come era. Dopo la scossa del 20 maggio, Biagio e Luana mi avevano consigliato di spostarmi dalla nostra abitazione posta al secondo piano in un condominio, in quanto Christian era già sulla sedia a rotelle. Così ci siamo trasferiti nella Tendopoli allestita a Mirandola. Il 28 di maggio l’Haemotronic di Medolla ha riaperto e Biagio è tornato a lavorare. Ricordo la mattina del 29 maggio: alle sei ci siamo salutati. ‘Mamma ciao ci vediamo alle 14’. Non l’ho più visto».
Nel 2017, in occasione della visita a Carpi e Mirandola, ha incontrato Papa Francesco. Cosa ricorda?
«La sua grande umiltà. Vicino a me c’era Christian in sedia a rotelle. Nonostante la sua grandezza, Papa Francesco si è rapportato a noi e agli altri familiari con grande umiltà e ci ha toccato con il cuore. È stato un momento veramente molto importante».
Che ruolo ha avuto la Fede nell’affrontare il dolore?
«Mi ha molto aiutata. Negli anni ho intrapreso un percorso con un padre spirituale che mi ha supportato moltissimo. Nonostante tutto quello che è accaduto, posso dire di avere nel cuore una certa serenità che io attribuisco ai miei figli. Non tutti riescono a capire questa cosa, ma io sono assolutamente lucida. Christian ed io abbiamo affrontato la sua malattia a testa alta; sembrava quasi che ce l’avesse fatta, con l’aiuto di tante persone, ma poi non è stato così. Lui per primo aveva tanto sofferto tanto quando è morto Biagio».
È prevista l’inaugurazione di un memoriale nell’azienda in cui è morto Biagio?
«Il 29 maggio verrà posta la prima pietra, dietro la fabbrica, di quello che ci hanno presentato come un progetto molto bello ed emozionante e che richiederà almeno due mesi di costruzione. Un memoriale di marmo che prevede un cerchio centrale che ogni giorno alle nove del mattino rifletterà il sole in ricordo di quello che è accaduto 10 anni fa».
di Claudia Fortini
«Dopo dieci anni rimane solo un dolore immenso. La mancanza di Nicola si sente sempre di più. Sarà l’età. Ma ogni momento che passa è peggio. Andiamo insieme tutti i giorni al cimitero, portiamo i fiori, parliamo con lui sulla tomba. Ma nostro figlio non c’è». Bruno Cavicchi e Romana Fiorini, sono i genitori di Nicola Cavicchi, il giovane di 35 anni, morto nella notte del 20 maggio, sotto le macerie delle Ceramiche Sant’Agostino. Abitano a San Martino di Ferrara, nella casa dove risiedeva anche Nicola. «Era allegro, scherzava con tutti – racconta la madre – aveva tanti amici e tutti gli volevano bene. Gli piaceva viaggiare».
Quella sera sarebbe dovuto andare al mare dove aveva la casa ma l’avevano chiamato al lavoro: «Era andato con serenità – ricorda la madre – anche perché le previsioni avevano annunciato che all’indomani sarebbe piovuto». Da 11 anni era un operaio alle ceramiche. Sostituiva chi si ammalava. Proprio per l’esperienza e per la capacità di muoversi tra le diverse mansioni era un Jolly. Quella notte aveva accettato di sostituire un collega. Era di turno mentre il terremoto delle 4.04 ha fatto crollare l’edificio.
«C’eravamo spaventati con quella scossa così potente, ma i telegiornali non parlavano di morti – ricorda il padre– tanto che lo aspettavamo a casa subito dopo le sei. La mattina avevamo aperto la porta. Attendavamo che entrasse da un momento all’altro, con quel suo fare scherzoso di tutti i giorni. Ma non arrivava mai. Lo stiamo ancora spettando». Da qui le telefonate che non davano risposta. Le linee erano fuori uso. La corsa del fratello Cristiano e della fidanzata di Nicola Elisa, alla fabbrica di Sant’Agostino. E la scoperta terribile, devastante, della tragedia.
Nello stesso reparto anche Leonardo Ansaloni, 41 anni, di Reno Centese, due figli ancora piccoli, era stato travolto dalla violenza del terremoto e ucciso. Nicola stava proprio in quei giorni, compiendo passi importanti per la sua vita. «Attacco le scarpe da calcio al chiodo – aveva annunciato ai genitori – e vado a vivere da solo». Era stato un difensore del San Carlo e del Sant’Agostino. Aveva deciso di sistemare la casa, a cinquanta metri da quella attuale, dove i genitori erano stati ‘sposini’ e dove lui aveva vissuto l’infanzia. Una casa che la famiglia aveva conservato e che Nicola voleva far rinascere. «Il giorno dopo – ricorda la madre – avrebbe dovuto andare a fare alcuni lavoretti per sistemare la casa».
Ma quel suo sogno che si stava plasmando non ha potuto concretizzarsi. Giorni terribili. Il padre Romano, 80 anni, ex operaio della Montedison, ricordando scuote la testa. Si è trovato ad affrontare anziano, pensionato, un dolore immenso, ma anche una battaglia legale per far valere, senza riuscirci, i diritti di chi è morto sul lavoro ma che, non avendo moglie e figli a carico, per lo stato italiano non può vedere riconosciuto nessun risarcimento.
«Ci hanno recapitato un assegno di 1.936,38 euro dall’Inail per le spese funerarie – racconta il padre Romano – perché non aveva moglie e figli a carico e la legge non riconosce nulla. Eppure il contributo di Nicola in famiglia era fondamentale. Non è neppure un’elemosina ma una beffa nella tragedia – fa notare – visto che solo per il funerale ne abbiamo spesi 11 mila. La vita di un operaio morto mentre lavora a soli 35 anni, non può valere poco più di mille euro. Era meglio non ricevere niente». La tragedia si offusca di un senso profondo di ingiustizia. «Ricordo che a settembre ero andato a Bondeno – aggiunge il padre – per essere ascoltato dalla Commissione di inchiesta per gli infortuni sul lavoro del Senato. Avevo chiesto di cambiare la legge, il testo unico 1124 del 30 giugno 1965. Non gli è stato riconosciuto nulla. Vorrei che almeno si ricordassero di chi verrà dopo di lui».
di Marco Santangelo
«Non si può dire che fosse un terremoto atteso, anche se non era inaspettato». Il sismologo e professore dell’Università di Bologna, Paolo Gasperini, usa questa “battuta” per raccontare il sisma che nel 2012 sconvolse l’Emilia-Romagna.
Professore, in che senso non era un terremoto atteso?
«Perché l’area che ha colpito non è tra quelle più sismiche, almeno per quanto riguarda la storia sismica della nostra nazione. Tuttavia non era inaspettato in quanto ha riguardato un territorio che, pur essendo di pianura, si trova al di sopra di una catena montuosa sepolta sotto i sedimenti del Po».
La magnitudo non è stata così diversa dai terremoti che hanno colpito L’Aquila (2009) e Amatrice (2016).
«Un sisma con una magnitudo pari a quella della prima scossa, 6.1, si verifica in Italia circa una volta ogni sette anni ed è spesso associato a parecchie vittime e innumerevoli danni. Ma nella nostra regione, fortunatamente, non è andata proprio così. Sembra un discorso un po’ cinico, ma con una magnitudo del genere ci sono state davvero poche vittime rispetto all’Aquila o Amatrice».
Perché?
«Il terremoto ha colpito una zona in cui le abitazioni residenziali erano state ricostruite e trattate con la giusta manutenzione. Avevano una resistenza intrinseca al sisma anche se non erano state progettate, nello specifico, per resistere alle oscillazioni, dato che quell’area, fino a qualche anno fa, non era nemmeno considerata a rischio».
Alcune vittime, però, sono legate al crollo di capannoni industriali.
«Ecco, i capannoni, alcuni edifici pubblici vulnerabili o casette di campagna sono crollate o hanno subito dei danni, mentre quelle residenziali sono rimaste intatte nella maggioranza dei casi. Il crollo di alcuni capannoni è da collegare a strutture costruite in un periodo in cui non era richiesta nessuna normativa antisismica, dato che fino al 2003-2004 l’Emilia-Romagna era abbastanza esclusa dalle zone considerate pericolose. Per questo nessuno pensava fosse necessario difendersi dai terremoti, poiché ci troviamo in pianura. Ma si sbagliavano».
Dal 2004, quindi, cosa è cambiato?
«Che la regione è stata inserita in una zona a rischio medio, anche se il termine esatto è pericolosità. Adesso è stata pubblicata una nuova analisi da noi sismologi che valuta la probabilità di scuotimento e l’Emilia-Romagna entra ancora di più in una classe di rischio non altissima, ma comunque notevolmente presente».
C’è da preoccuparsi?
«Ripeto, la maggior parte delle case, comprese quelle non costruite in cemento, hanno resistito. Questo dimostra che non conta solo la costruzione o le annesse tecniche, ma anche e soprattutto la manutenzione e cioè applicare dei retrofit alle abitazioni in modo che siano più resistenti in caso di scuotimento».
di Gabriele Bonfiglioli
In Emilia, il terremoto tornò a far danni il 13 marzo 1832, quando investì la zona del Reggiano e del Parmense con una magnitudo di 5.5. Dopo il sisma di 5.9 del novembre 1918 sull’Appennino forlivese – che colpì soprattutto il paese di Santa Sofia e causò una ventina di vittime –, il 10 aprile 1929 nuove scosse spaventarono Bologna. Il terremoto, che si protrasse fino all’11 maggio, non fece vittime, ma provocò ingenti danni a palazzi e chiese. Molti bolognesi, sfollati o impauriti, si accamparono nelle piazze cittadine, in baracche e tende, o nelle carrozze ferroviarie e tranviarie. La Montagnola si trasformò in una sorta di camping, con perfino bungalow a pagamento. Per esorcizzare la paura c’è chi inviò cartoline illustrate con i saluti ‘da Villa Sussultoria’. Fra le ‘vittime’ illustri del terremoto, vi fu il castello di Zappolino, che sorgeva sul luogo della battaglia del 1325 tra bolognesi e modenesi.
Un’altra ingente scossa si verificò il 15 luglio 1971, alle 3.30, nel Parmense. Per circa venti secondi, il terremoto sorprese gli addormentati cittadini: non ci furono vittime, ma si contarono una quarantina di feriti, oltre a ingenti danni alle abitazioni. Quel sisma fu seguito da altre scosse a Parma, il 9 novembre 1983 (che portarono alla chiusura del teatro Regio), e a Correggio, il 15 ottobre 1996. Furono gli ultimi grandi terremoti che colpirono la regione. Gli ultimi prima del 2012.
Il 20 e 29 maggio 2012 non furono gli unici giorni in cui l’Emilia-Romagna tremò. Scavando nel passato sismico della regione, affiorano storie di terremoti che hanno segnato anni lontani e recenti. Scosse in aree che fino a poco tempo fa, erroneamente, si pensavano ‘a prova di terremoto’. «Qui non verrà mai», si diceva. E invece la storia era piena di casi.
Come l’11 giugno del 1438 quando il Parmense fu scosso da un terremoto con una magnitudo stimata di 5.6 sulla scala Richter, secondo i dati raccolti dall’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). Dopo pochi decenni, il 3 gennaio 1505, un sisma di simile entità si abbatté su Bologna. La città iniziò a vivere nella paura per settimane, tanto che – riportarono i cronisti dell’epoca – il sisma venne identificato come un «castigo divino» che Giovanni II Bentivoglio, allora Signore di Bologna, ‘placò’ commissionando al pittore Francesco Francia una ‘Madonna del terremoto’.
Nell’area dell’Appennino – quella a maggior rischio sismico – e in Romagna, il Seicento fu un secolo di grandi terremoti.
A partire dal 1661 quando, sempre secondo l’Ingv, un sisma di magnitudo 6.1 colpì l’Appennino forlivese: le scosse, che andarono avanti per oltre un mese, si sentirono fino a Bologna e Ferrara. L’11 aprile 1688, poi, un terremoto di 5.8 devastò l’area della Romagna: Cotignola, in provincia di Ravenna, venne quasi interamente rasa al suolo.