All’origine del grande bluff

Il blitz perfetto dietro l’ascesa di Mussari

Formidabili quegli anni dal 2001 al 2006. Ogni cosa sembrava illuminata su Rocca Salimbeni. Fu il quinquennio in cui la politica si tolse la maschera e intervenne in maniera sfacciata (alla sua epoca la Dc era molto più discreta) nelle faccende del Monte dei Paschi, con interviste persino del segretario della federazione Ds Franco Ceccuzzi, sulla trattativa con Bnl. Che parlava in forza del titolo di “azionista di riferimento” di Comune e Provincia, che erano azionisti di controllo della Fondazione, proprietaria del 75 percento delle azioni della Banca. Chi altri avrebbe potuto parlare di una fusione tra due ex istituti di diritto pubblico? Sono tre le storie da ricordare. La prima fu l’acquisto di Banca 121.

 

Dopo la quotazione in Borsa e l’acquisto della Banca Agricola Mantovana, che aveva permesso al Monte di stringere rapporti con i “capitani coraggiosi” Colaninno, Gnutti, Marcegaglia, il gruppo presieduto da Pier Luigi Fabrizi e con Divo Gronchi direttore generale, puntò Banca 121 per espandersi nel sud est e per immettere innovazione nel fare banca. C’è poco spazio per ricordare quella storia: rimandiamo agli interventi di Fabrizi e Gronchi su La Nazione Siena il 9 e 10 ottobre sull’affare 121.

 

L’evento che cambiò la storia del Monte dei Paschi fu l’avvento di Giuseppe Mussari alla presidenza della Fondazione Mps il 1° agosto 2001. E anche qui lo spazio è tiranno, perché il racconto di quell’elezione è il copione del blitz perfetto, di un’operazione dell’ala governativa dei Ds e della Provincia di Siena, guidata da Fabio Ceccherini, che non voleva l’ex sindaco Pierluigi Piccini al vertice della Fondazione. Solo che bisognava disinnescare la maggioranza di 8 su 16 deputati generali designati dal Comune; tra i quali c’era anche Mussari, avvocato di fiducia di Piccini.

Giuseppe Mussari, presidente del Monte dei Paschi di Siena dal 2006 al 2012

Dopo incontri segreti, viaggi romani, trattative febbrili, mentre l’ex sindaco si illudeva ancora di diventare presidente, in ossequio alla direttiva Visco che sanciva l’ineleggibilità di chi era stato alla guida di un ente nominante, di essere designato per almeno un anno, la deputazione generale elesse Giuseppe Mussari. Dopo un incontro al vertice tra l’allora sindaco Maurizio Cenni, il presidente della Provincia Ceccherini e il segretario dei Ds Ceccuzzi (che aveva definito il ministro Visco «il deputato di Guastalla»), dove si avallò la scelta. Anche perché l’allora presidente della Fondazione Giulio Sapelli, assieme al deputato Enzo Cheli, minacciò le dimissioni e lo spettro del commissariamento, nel caso si fosse insistito sulla candidatura di Piccini.

 

Risultato? Mussari presidente e i sei membri della deputazione amministratrice specchio fedele dello strapotere della politica sulla competenza per poter gestire la Fondazione più ricca d’Italia. I sei deputati erano gli ex sindaci Ds di Colle e Castelnuovo Berardenga Marco Spinelli e Luca Bonechi, l’ex segretario provinciale Cgil Fabio Borghi, il segretario provinciale Ppi Gabriello Mancini, il segretario provinciale di Forza Italia Fabrizio Felici e Alessandro Lastray, Rifondazione Comunista. La prossima puntata tratterà della Fondazione. La trattativa con Bnl, dal 2001 al 2005, in due fasi, ha conseguenze più dirette sul futuro del Monte.

Giulio Sapelli, dal 2000 al 2001 è stato Presidente della Fondazione del Monte dei Paschi di Siena

La prima fase è aperta dai vertici del Monte nel consiglio a Fontanafredda, con l’annuncio dell’apertura del dossier. Sono in tanti a volere la fusione, si studiano concambi, alleanze, piani industriali. Bankitalia, con Fazio governatore, e il ministro del Tesoro Tremonti spinsero perché la Fondazione scendesse al 20 percento del capitale di Mps-Bnl. Ma le resistenze di Siena furono tenaci e la trattativa fallì. A gennaio di quest’anno Abete, prima di lasciare dopo 23 anni la presidenza di Bnl, ha rivelato al Sole 24 Ore: «I colloqui erano andati molto avanti. Ma si bloccarono sulla richiesta di Mps di fare una integrazione a valori diversi e non alla pari. A impedire l’accordo fu anche la mancanza di intesa sulle posizioni future alla guida operativa. Per me voleva dire ri-pubblicizzazione, Mps all’epoca era controllato dal Comune attraverso la Fondazione, che voleva mantenere la minoranza di blocco».

«Acquisire Banca 121 fu una scelta industriale. Ma con Bnl si è persa una grande occasione»

La versione di Pier Luigi Fabrizi, presidente dal 1998 al 2006. E la frecciata alla vigilia dell’addio: «Non sono un politico, ma un tecnico»

«Non sono un politico ma un tecnico, che ha fatto questa esperienza in un momento in cui l’apertura verso la società civile era maggiore rispetto ad oggi. Si discute molto poco su progetti strategici e industriali, a me sembra, da quanto leggo sui giornali, che la discussione sulle nomine degli organi di Banca Mps abbia un sapore fortemente politico».

 

Il 30 marzo 2006 Pier Luigi Fabrizi chiuse così, rispondendo alla domanda di un giornalista, i suoi quasi otto anni di presidente della Banca Mps. A fine aprile ci fu l’assemblea degli azionisti che avallò la nomina di Giuseppe Mussari, passato dalla Fondazione alla Banca. E il riferimento alla prevalenza della politica fu particolarmente amaro per un presidente che aveva cercato di cancellare l’etichetta di “banca rossa” affibbiata al Monte, di istituto dominato dalla politica locale.

Pier Luigi Fabrizi, presidente della Banca del Monte dei Paschi dal 1998 al 2006

L’acquisizione

 

Il primo colpo di Pier Luigi Fabrizi fu l’acquisto di Banca Agricola Mantovana. «L’Opa sulla BAM rappresenta il ricordo più bello del mio periodo al Monte – dice oggi l’ex presidente –. Si trattò della prima operazione del genere nei confronti di una banca popolare, cioè di un soggetto che risultava estremamente difficile da acquisire per la presenza all’epoca del meccanismo del voto capitario. Di quell’operazione conservo intatti nella memoria la determinazione, l’impegno e l’unità di intenti con cui la Banca buttò il cuore oltre l’ostacolo. Le trattative furono estenuanti, ma per il Monte (data la sua immagine di banca grande ma governata da logiche localistiche) è sempre stato così quale che fosse il soggetto da acquisire. Quella volta si trattava di vincere non solo per rimediare all’insuccesso dell’operazione con la Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto ma, soprattutto, per ricreare una presenza al nord in gran parte venuta meno a seguito della cessione del Credito Commerciale e del Credito Lombardo».

L’asta al rialzo

 

Pochi mesi dopo Mantova, il Monte fa rotta verso il Salento e acquisisce, per 2.500 miliardi di lire, Banca 121, strappata a Sanpaolo Imi dopo un’asta al rialzo. «L’acquisto della Banca del Salento è stata un’operazione di natura esclusivamente industriale – è il mantra di Fabrizi –. Si trattava di portare avanti, dopo l’acquisizione della BAM nel nord est, e in coerenza con la strategia del polo aggregante federativo allora perseguita, ulteriori linee di espansione territoriale nel nord ovest e nel sud est del Paese. Le attenzioni della Banca furono rivolte in contemporanea alla Banca Regionale Europea e, appunto, alla Banca del Salento. Con la prima le nostre offerte non ebbero successo. Ci orientammo decisamente verso la seconda, anche perché rappresentava all’epoca un soggetto all’avanguardia nello sviluppo della strategia di diversificazione integrata dei canali di distribuzione (sportelli tradizionali, promotori finanziari, sistemi on line). L’analisi fu molto approfondita (data room, due diligence, eccetera) e caratterizzata da numerosi passaggi in Consiglio di Amministrazione. Il prezzo che si determinò, pagato in contanti solo per 600 miliardi di lire (pari al 24 percento) e in azioni per i restanti 1.900 miliardi di lire, fu il risultato del meccanismo di mercato dell’asta coordinata da un soggetto di elevato standing e della presenza di un concorrente molto agguerrito. Aspetto, quest’ultimo, a dimostrazione del grande interesse industriale che la Banca del Salento suscitava».

L’opportunità persa

 

La trattativa principe di quegli anni fu con la Banca Nazionale del Lavoro. La fusione sulla carta aveva un grande senso industriale, ma poi quando si passava a discutere di concambi, di assetti proprietari e di governance le cose si complicavano. «La possibile operazione con la Banca Nazionale del Lavoro – è la versione di Fabrizi – ha vissuto varie fasi dal 1998 al 2005. In ogni momento è mancato sempre qualcosa. Nel 2005, quando l’operazione svanì definitivamente, feci ricorso, in un comunicato stampa, a un proverbio popolare: quando c’è stata la farina non c’è stato il sacco e viceversa. Mi riferivo alla contrarietà ora dell’uno ora dell’altro dei vari decisori locali e nazionali. Quello che è certo è che si è trattato di una grande opportunità persa a causa della miopia di alcuni: la Banca avrebbe risolto in via definitiva il problema dimensionale e la Fondazione sarebbe potuta diventare un’azionista di rilievo di un grande soggetto bancario nazionale».

La leva dello sport

 

Furono anni in cui Siena era capitale anche nello sport, con il Siena in Serie A e la Mens Sana Basket che iniziava a vincere scudetti e coppe, grazie al Monte. «Le sponsorizzazioni sportive, in particolare quelle della Mens Sana Basket e dell’A.C. Siena ma anche quelle di altre società minori – fa notare Pier Luigi Fabrizi – rappresentarono all’epoca una scelta di marketing strategico che fece seguito a quella del ricorso a un grande testimonial, il maestro Luciano Pavarotti. Attraverso di esse si voleva rafforzare, in maniera originale e tramite lo sport, veicolo trainante e oggetto di ripetuti passaggi nei media, la diffusione del nome e dell’immagine della Banca e del Gruppo sul territorio nazionale e in particolare tra i giovani. L’attenzione è sempre stata rivolta principalmente alle società sportive senesi, ma questo faceva parte della politica di attenzione al territorio che trovava un’altra fondamentale espressione nel rapporto privilegiato con le Contrade».

Il Monte contro l’iceberg Antonveneta

L’8 novembre 2007 il bluff di Botin, capo del Santander: «O chiudiamo stasera a 9 miliardi o domani parte l’asta con Bnp Paribas». E arrivò il sì

«O chiudiamo stasera a 9 miliardi di euro o domani faccio partire l’asta con i francesi di Bnp Paribas da questa cifra». L’aut aut di Emilio Botin Sanz de Sautola y Garcia de los Rios, fondatore e capo esecutivo del Banco Santander Central Hispano, ha il sapore di un bluff, ma il suo interlocutore dall’altro capo del telefono ci casca. D’altronde, come può un avvocato che, per sua stessa ammissione, sta facendo «un mestiere che non è il suo», battere a una partita di poker finanziario il potentissimo presidente di una banca fondata da suo nonno, fatta crescere da suo padre che poi, alla sua morte, sarebbe passata alla figlia Ana? Lo sventurato rispose, per copiare Manzoni. E in una notte, quella dell’8 novembre 2007, dopo una telefonata, il Monte dei Paschi, transatlantico che navigava da oltre 5 secoli e aveva superato guerre mondiali e dominazioni straniere, andò a sbattere contro l’iceberg Antonveneta.

Emilio Botin Sanz de Sautola y Garcia de los Rios, fondatore e capo esecutivo del Banco Santander Central Hispano

Nulla fu più come prima, la falla aperta da quell’operazione sciagurata non poteva essere richiusa con trucchetti tipo bond Fresh, derivati Alexandria e Santorini ristrutturati, accantonamenti ritardati sulla valanga di crediti deteriorati, miliardi di capitale bruciati come il falò delle vanità di Savonarola. Giuseppe Mussari, diventato presidente della Banca il 29 aprile 2006, designato dai deputati generali della Fondazione Mps che presiedeva, accettò il rialzo da 8,2 a 9 miliardi di euro per comprarsi Antonveneta, «senza aver mosso un solo pezzo di carta», come rivelò Alessandro Daffina ceo di Banca Rotschild per l’Italia.

 

Solo un mese prima, Banco Santander aveva chiuso l’Opa sull’olandese Abn-Amro, che aveva acquisito Antonveneta nel 2006. Quella banca era «il gobbo nero» del credito italiano, aveva inguaiato prima Giampiero Fiorani e la Popolare di Lodi, poi Abn Amro che la comprò, per poi finire ingoiata da Santander un anno dopo. Che se la ritrovò tra le mani, dopo averla pagata 6,6 miliardi di euro, ma con l’aggiunta di Interbanca, che sfilò dal pacco che stava per rifilare al Monte. A metà dicembre 2006 Bankitalia concluse un’ispezione su Antonveneta e bocciò i fondamentali della banca, chiedendo una multa per i vertici e il collegio sindacale. Giudizi sfavorevoli su redditività, posizionamento nel mercato, impieghi, raccolta, organizzazione aziendale.

Solo la liquidità era accettabile ma perché garantita dai prestiti da Abn Amro. Quei 7 miliardi da ridare agli olandesi furono la seconda batosta fatale per il Monte dei Paschi. La somma che farà salire a 17 miliardi di euro, pagati cash, con tanto di bonifici bancari a favore di Santander (5 per un totale di 5 miliardi e 120 milioni), Abn Amro (uno, il 30 maggio 2008 per 9 miliardi e 247 milioni) e Abbey National Treasury Service (due bonifici da 2 miliardi e 623 milioni di euro). Nessuna due diligence, nessuna verifica dei conti, nessun accenno a quell’ispezione di Bankitalia. «Non ricordo se ho risposto subito sì a Botin o l’ho richiamato – disse Mussari nel corso dell’interrogatorio ai pm senesi il 15 febbraio 2013 –. Non era stata eseguita nessuna due diligence perché nemmeno Santander aveva potuto farla prima di acquistare Antonveneta. Peraltro gli olandesi avevano potuto fare una bella pulizia di bilancio dopo averla comprata».

Si vide dopo a chi la fecero pagare quella pulizia. «In nessun momento Mussari mi spiegò quale era il suo interesse per acquisire Antonveneta – dichiarò Emilio Botin sentito dai pm senesi –. Non ci furono riunioni con i rappresentanti di Mps per negoziare la vendita di Antonveneta, ma si trattò tutto per telefono, due o tre volte con Mussari». «Questi non sanno cosa hanno comprato e non sanno che ci devono dare 7,5 miliardi di euro» fu la testimonianza dell’allora ad di Antonveneta Pierluigi Montani. Basta aggiungere i risultati dei bilanci di Banca Mps del 2005, 2006 e 2007, chiusi con utili di 790,2 milioni, 910,1 e 1437,6 milioni di euro, tre record, per valutare l’impatto sui conti dell’iceberg Antonveneta.

Le “confessioni” di Gabriello Mancini, presidente della Fondazione dal 2006 al 2012: «Scelte condivise dai vertici nazionali»

«La mia nomina e quella di Mussari? Decisero i maggiorenti della politica locale»

«Sono presidente della Fondazione Mps dal maggio 2006. Vi era un accordo tra le istituzioni locali, il sindaco Maurizio Cenni e il presidente della Provincia Fabio Ceccherini. La mia nomina, come quella dell’avvocato Mussari alla presidenza della banca, fu decisa dai maggiorenti della politica locale e regionale e condivisa dai vertici della politica nazionale. Per quanto riguarda la mia persona posso dire che il mio principale sponsor era l’onorevole Alberto Monaci».

 

È il verbale dell’interrogatorio di Gabriello Mancini del 24 luglio 2012 ai pm di Siena per la prima inchiesta sul caso Antonveneta-Mps, recuperato grazie a Gianluca Paolucci de La Stampa. Resta lo specchio più fedele su quei momenti fatali che portarono al dissesto del Monte dei Paschi. A inizio 2006 Giuseppe Mussari punta decisamente alla presidenza di Banca Mps, per prendere il posto di Pierluigi Fabrizi. È al vertice della Fondazione dal 2001, ha tessuto una trama di rapporti nazionali e locali, anche grazie alla distribuzione annuale di 130 milioni di euro in media di contributi per il territorio. In una delle riunioni con i deputati generali della Fondazione, il presidente della Provincia Ceccherini avanza perplessità sul passaggio di Mussari dalla Fondazione alla Banca. E propone come candidato alternativo Stefano Bellaveglia, vicepresidente vicario del Monte. Ma quel nome non passa.

Gabriello Mancini, presidente della Fondazione Mps dal maggio 2006

«Io non partecipai – è ancora Mancini che parla – alle riunioni nelle quali si decise di indicarmi alla presidenza della Fondazione e di indicare Mussari alla presidenza della Banca. L’onorevole Monaci mi riferiva che era stato trovato un accordo con i Ds. Pur avendo contezza, perché mi fu riferito dall’onorevole Ceccuzzi che anche per i Ds vi fu un assenso a livello nazionale, non sono in grado di dire a chi si rivolsero i maggiorenti locali. Ricordo che Mussari mi confermò di avere il sostegno del partito a livello nazionale. Il passaggio di Mussari alla banca fu fortemente voluto dai Ds e dalle istituzioni locali per dare un segnale sulla governance della banca e sul ruolo della Fondazione all’interno dell’istituto. Dopo la nomina di Mussari alla presidenza, ricordo che egli indicò Antonio Vigni quale direttore generale della Banca. Posso dire che la nomina di Vigni era fortemente voluta dal sindaco Cenni e dalla Fisac Cgil».

 

La deputazione generale farà i suoi nomi di consiglieri d’amministrazione. L’assemblea dei soci di Banca Mps del 29 aprile 2006 nomina i 10 membri del cda: Giuseppe Mussari (presidente), Ernesto Rabizzi e Francesco Gaetano Caltagirone vicepresidenti, Fabio Borghi, Andrea Pisaneschi, Lucia Coccheri, Turiddo Campaini, Pierluigi Stefanini, Carlo Querci, Lorenzo Gorgoni. Nel collegio sindacale Tommaso Di Tanno (presidente), Leonardo Pizzichi e Pietro Fabretti. Caltagirone, che aveva il 4,7 percento, Campaini, che con Unicoop Firenze aveva il 2,7 percento, Stefanini, presidente di Unipol con l’1,99 percento, Gorgoni che rappresentava i soci salentini con il 2,8 percento, erano gli altri azionisti del Monte. La Fondazione nell’estate 2006 aveva il 57 percento della banca, il 49 percento di azioni ordinarie.

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